Uffa che barba!
Quando noi morti ci risvegliamo
Quando noi morti ci risvegliamo è un titolo di Ibsen, ma lo spettacolo che faremo non c’entra nulla con Ibsen, o forse c’entra e noi non lo sappiamo, perché il dramma di Ibsen non l’abbiamo letto.
Ci siamo fermati al titolo che ci è sembrato subito molto bello, quasi che il seguito non potesse esserlo altrettanto e non volevamo rischiare.
Quando noi morti ci risvegliamo, titolo esplosivo. Una minaccia, una frase che fa tremare, adesso voi state tranquilli, ma quando noi morti ci risvegliamo, vedrete…
Forse è una frase che fa tremare più chi la pronuncia che chi la riceve. Soprattutto se la chiudi con un punto interrogativo. Quando noi morti ci risvegliamo?
Una domanda perfetta per un gruppo di sei ragazzi di poco più di vent’anni.
Qualcosa è appena finito, è morta un’epoca, una corrente, un modo di fare e di pensare.
Certo, il passato è ancora in giro, se ne vedono gli strascichi ogni tanto, si aggrappa al vuoto che si gli si è spalancato intorno sperando di tornare a riempirlo con la sua prepotenza.
Ciò che si annuncia però non lo riguarda.
Qualcosa è appena finito e qualcosa di nuovo sta per cominciare.
Sarà (deve esserlo!) completamente nuovo, un maremoto, la rivoluzione!
Sta. Per. È quel punto lì.
Dei morti prima del risveglio. In quel breve momento di pausa che c’è tra la fine e un nuovo inizio.
(Come gli apostoli all’ultima cena, la vera ultima cena, quella dopo che Gesù era morto.
È finito tutto, per sempre: e adesso che ci inventiamo? Papà se n’è andato e ci ha lasciato con un mare di debiti sotto forma di insegnamenti. Ma noi adesso che facciamo? Ci facciamo crescere la barba come lui? Basterà?).
Smarrimento, attesa, sentimento di onnipotenza e di totale irrilevanza, euforia e nostalgia precoce, cosa è stato e cosa sarà.
Risvegliarsi a vent’anni ed essere di nuovo condannati a sperare.
Tocca a voi. Questo è il vostro momento e il vostro posto.
Ma poi il momento non è mai adesso e il posto è ancora occupato.
Come il palcoscenico, su cui incombono le statue di tre grossi ominidi. L’età della pietra.
Cosa vogliono da noi? Perché non si tolgono dai piedi? Ci fanno ombra. Loro sono davvero minacciosi, e noi che volevamo spaventarvi! Ci sentiamo di nuovo piccoli e ridicoli.
Forse bisogna aspettare ancora un po’, occupare il tempo in cose futili, rispettare i ruoli, adeguarsi ai luoghi comuni che ci hanno cucito addosso, fare quello che loro si aspettano da noi.
Oppure distruggerli. Dormire altri cinque minuti o finalmente svegliarsi?
Ma in fondo, se gli antenati hanno ancora bisogno di un po’ d’attenzione, a noi sta bene.
Li lasciamo in pace e cerchiamo uno spazio diverso.
Oltretutto è l’ora dell’aperitivo. Quindi noi ce ne andiamo, voi fate un po’ come volete.
QUANDO NOI MORTI CI RISVEGLIAMO
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
supervisione artistica di Antonio Latella
regia di Leonardo Manzan
con Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
sound design Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente alla regia Andrea Lucchetta
INFORMAZIONI
Lo spettacolo prevede scene di nudo
“Uffa, che barba! Uffa, che noia!”
Con questa frase si concludevano gli episodi di Casa Vianello, la sit-com televisiva che vedeva protagonisti Sandra Mondaini e Raimondo Vianello; dopo una giornata condita da episodi rocamboleschi, equivoci, comici litigi, la coppia si augurava la buonanotte con questa frase pronunciata dalla Mondaini, che diventò quasi uno slogan capace di entrare nel gergo degli italiani. Una frase che ormai associamo naturalmente a qualcosa di noioso, ripetitivo; i ragazzi spesso la utilizzano quando vengono chiamati dagli adulti a fare qualcosa che non vorrebbero fare, come ad esempio studiare. Per gli adulti, forse, è invece diventata una sorta di sentenza da applicare alla politica, quando continua a riproporci lo scenario di sempre senza alcuna novità o addirittura speranza. È una frase buffa che ci aiuta a sdrammatizzare, a volte, le miserie della vita, il non-senso del quotidiano.
È possibile che continuare gli studi dopo un triennio di Accademia, prolungarli per altri due anni, potrebbe essere un percorso da liquidare con un perentorio “Uffa, che barba!”. Eppure lo studio ricercato, scelto e voluto, che accresce ulteriormente il nostro bagaglio di conoscenze, può prepararci davvero alla prova del lavoro. Intitolare un biennio “Uffa, che barba!” non vuole essere una provocazione, ma una tematica su cui orientare due anni di studio, confronto e verifiche; due anni dedicati al tema della “barba” declinato in tutte le sue varianti: la noia, certo, ma anche le infinite barbe che popolano i testi teatrali o letterari, le favole, le barbe di personaggi realmente esistiti o quelle dei protagonisti della settima arte. Una frase ironica, quindi, che possa accompagnarci offrendo la possibilità di indagare più linguaggi e più mondi di espressione artistica.
Antonio Latella
Regista, drammaturgo e pedagogo di fama europea, vive a Berlino dal 2004. Studia recitazione presso la scuola del Teatro Stabile di Torino diretta da Franco Passatore e la Bottega Teatrale di Firenze fondata da Vittorio Gassman. Ma è il lavoro di regista, che inizia nel 1998, a conferirgli fama nazionale ed europea, portando i suoi spettacoli nei massimi teatri e festival internazionali. La sua carriera da regista gli conferisce innumerevoli premi tra cui: nel 2001 il Premio Ubu per il Progetto Shakespeare e oltre; nel 2005 il Premio Nazionale dell’Associazione Critici di Teatro per La cena de le ceneri, miglior spettacolo dell’anno; nel 2007 il Premio Ubu per Studio su Medea miglior spettacolo dell’anno; nel 2012 il Premio Hystrio alla regia; sempre nel 2012 il Premio Ubu per la miglior regia per Un tram che si chiama desiderio; nel 2013 il Premio Ubu per la miglior regia con Francamente me ne infischio; nel 2014 è finalista del Nestroy Prize di Vienna per Die Wohlgesinnten; nel 2015 vince il Premio le Maschere del Teatro per Natale in casa Cupiello; nel 2016 il Premio Ubu per Santa Estasi, miglior spettacolo dell’anno; nel 2019 il Premio Ubu per Aminta; nel 2021 il Premio Ubu per Hamlet, spettacolo dell’anno. È il primo regista di formazione italiana e autore ad essere selezionato per il Theatertreffen del Berliner Festspiele, selezione dei dieci migliori spettacoli di lingua tedesca nel 2020. Nel 2011 fonda la sua compagnia “stabilemobile”. La Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta lo ha nominato direttore del settore Teatro per il quadriennio 2017/2020. Dal 2010 è docente e pedagogo presso le più importanti Scuole di Teatro italiane: Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, Teatro Stabile di Torino, Piccolo Teatro di Milano, Scuola Civica Paolo Grassi di Milano.
Leonardo Manzan, classe 1992, si diploma attore alla Civica Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano.
Esordisce alla regia con lo spettacolo It’s App to You – o del solipsismo: uno spettacolo, in veste di videogioco, sulla realtà virtuale vincitore di numerosi premi, tra cui InBox 2018.
Vince, sempre nel 2018, il bando per registi Under 30 della Biennale di Venezia con lo spettacolo-concerto Cirano deve morire. Una riscrittura in versi rap del celebre dramma di Rostand.
Invitato nuovamente alla Biennale Teatro, nel 2020 presenta lo spettacolo Glory Wall che si aggiudica il premio come Miglior spettacolo, ed è la sua personale interpretazione del tema del Festival: la censura. Un muro di 12 metri separa il palco dalla platea e si anima di visioni oniriche che riflettono in maniera impietosa sul tema della censura e sul potere, ormai inesistente, dell’arte.
Nell’ultimo suo lavoro intitolato Uno spettacolo di Leonardo Manzan trasforma il teatro in una sala museale e accoglie il pubblico in piedi su un piedistallo. “Sono un’opera d’arte!” dice agli spettatori che potranno seguire lo spettacolo attraverso le radioguide che si usano nei musei.
Antonio Latella
Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico
Uffa che barba!
Uffa che barba!
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Leonardo Lidi