Liv Ferracchiati, Alice Raffaelli
La morte a Venezia
libera interpretazione di un dialogo tra sguardi
Una macchina fotografica su un treppiede al limitare delle onde e uno scrittore che muore su una spiaggia per aver mangiato delle fragole contaminate dal colera, simbolo dell'inesplorato che c’è in ognuno di noi.
Non un adattamento teatrale de La Morte a Venezia, ma un percorso scenico liberamente ispirato al romanzo che combina tre diversi linguaggi: parola, danza e video.
Distaccandosi dal tema dell’omoerotismo e della differenza d’etá, rimane l’incontro a Venezia tra Gustav Von Aschenbach e Tadzio, rimane la morte.
Due sconosciuti che vivono ciò che Mann riassume così: "Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo".
Il tentativo è di avvicinare questi due personaggi a noi e, allo stesso tempo, di raccontare la fatica di scrivere e di come questa fatica, alla fine, sia squarciata da momenti rari, bellissimi e terribili, fatti di incontri con altri esseri umani.
Ironicamente, terzo personaggio è la Parola, che prima cerca un'armonia in una forma cristallizzata e poi si libera, si concretizza, si accende, ritrova una sua forma estrosa, per quanto ridicola e vana di fronte all’irraccontabile.
Liv Ferracchiati
ispirato a La morte a Venezia di Thomas Mann
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli
movimento Alice Raffaelli
dramaturg Michele De Vita Conti
aiuto regia Anna Zanetti / Piera Mungiguerra
assistente alla drammaturgia Eliana Rotella
scene Giuseppe Stellato
costumi Lucia Menegazzo
luci Emiliano Austeri
suono spallarossa
voce di Tadzio Weronika Młódzik
consulenza letteraria Marco Castellari
produzione Spoleto Festival dei Due Mondi, Marche Teatro_Teatro di Rilevante Interesse Culturale, Teatro Stabile dell’Umbria, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano -Teatro d’Europa
INFORMAZIONI
Si avvisa il gentile pubblico che all'inizio dello spettacolo sarà effettuata una breve ripresa video (non registrata) dal palco verso la sala. La ripresa viene proiettata in presa diretta per meno di un minuto su uno schermo posto sul palcoscenico.
Venezia e l'erosione della bellezza
Testo di Simone Nebbia
Un uomo è seduto, fasciato da una coperta sul ponte del vaporetto, misura la propria immobilità al movimento invece lento, silente, che avvicina la barca a Venezia, avvolta come l’uomo in una nebbia muta che tiene basso il mare. Mentre l’imbarcazione procede verso il porto, si svela anche il volto dell’uomo, il cui turbamento traspare in un’increspatura delle recenti rugosità senili, proprio nel momento in cui un suono di tromba di un’esercitazione militare squarcia il velo e con sinistra potenza rivela la terraferma.
Si direbbe che questa sia l’immagine con cui si apre al lettore La morte a Venezia di Thomas Mann, notissimo e breve romanzo pubblicato nel 1912 dall’autore tedesco che sarà Premio Nobel nel 1929; eppure, tra le prime pagine del libro, questa scena non compare se non dopo un lungo prologo in cui il professor Gustav (che aveva conquistato il titolo di: von) Aschenbach è ancora nella sua Monaco di Baviera, prima ancora di risolversi per un viaggio che lo vedrà giungere, non subito, nella città lagunare. Questa prima scena, che resta negli occhi perché in tal modo si apre il film omonimo di Luchino Visconti del 1971, rivela però un particolare determinante: si avverte come non sia il personaggio ad andare verso Venezia ma l’esatto opposto, questa città animata da una voracità stantia entra nella vita di Aschenbach come una lenta erosione, la stessa con cui il mare da secoli la assedia. La Venezia spettrale, torva, che cova il morbo omicida lungo ogni pagina del romanzo, pur dialogando con la morte già nel titolo di essa non è la causa, ma il compimento, perché il personaggio inizia a morire ben prima, muore come una conseguenza fluida di un progressivo disarmo, quando Aschenbach cioè accoglie l’idea della dispersione, la perdita del controllo, la rassegnazione alla bellezza come scomparsa del sé nel tutto. La causa scatenante di questo lento abbandono alla bellezza è la visione di un giovane efebico, in vacanza al Lido con la famiglia polacca, nel suo stesso albergo, che attrae il professore fin dalla prima immagine, scatenando in lui un interesse non immediatamente voluttuoso, non carnale, ma come fosse una promessa di estasi la vista di Tadzio, questo il nome del giovane, misura l’equilibrio formale in cui ha modellato la propria stimata opera letteraria e vi scorge, profonda, una crepa. La domanda è quella d’artista che ha attraversato l’intero Novecento: percorrerla come il tratteggio di un’incertezza o ignorarla a protezione della propria raggiunta fama? Aschenbach, dopo dubbi e turbamenti, in bilico tra conservazione e rivoluzione – non a caso negli anni Dieci del secolo nuovo – si vedrà costretto ad accogliere la naturale pendenza del proprio istinto, rifiutando una fuga che poteva essere salvezza da una morte annunciata.
Liv Ferracchiati sceglie ora di porre l’attenzione sull’inquietudine oscura di un uomo, uno scrittore, che sembra specchiare la sfrontata ambizione della gioventù e quella stessa aspirazione, non più malsicura, ritrovata nella maturità; tale riflesso, tuttavia, è un proibito altro rispetto alla ricerca di un rapporto con il giovane adolescente, come invece traspare dal film di Visconti, si tratta dell’attrazione verso la possibilità di gettarsi nella corruzione e quindi liberazione di sé, al fine di scrivere o di vivere, ricercare quella ispirazione che scaldi, accenda l’esistenza. Aschenbach parla poco con gli altri personaggi, apparizioni per lo più, allo stesso modo del rapporto del tutto muto con Tadzio («Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo», dirà lo stesso Mann): è un uomo solo, eppure non è isolato dagli altri, è lui stesso che si isola dal contesto perché ha bisogno di osservare dentro e fuori di sé, appare come una torre che svetta oltre le mura, dunque incarna la condizione d’artista ben definita dagli espliciti lemmi in lingua inglese: la sua non è loneliness, non è un solitario, diversamente egli sceglie di compiere da solo quell’ultimo viaggio, è dunque alone, ossia all e one, tutto in uno.
Non siamo di fronte a un adattamento per il teatro, bensì a una versione performativa e installativa che sceglie due elementi cardinali: la danza di Alice Raffaelli e una videocamera azionata dallo stesso regista, la cui voce monologante ne segue i movimenti. L’intenzione è dunque quella di raccogliere da Mann non una trama ma delle suggestioni da misurare a sé e al tempo presente. In tale processo quello della videocamera live, proprio perché la macchina deve costruire il movimento della ripresa, è uno sguardo voyeuristico che cambia l’oggetto dell’osservazione, perché acuisce l’ossessione di Aschenbach, la penetra come rompesse un velo di distanza, ma allo stesso tempo l’occhio resta precauzionalmente alle spalle del filtro: non visto, vede. E Tadzio, la danzatrice che è presenza ondivaga come anche nell’opera omonima composta da Benjamin Britten nel 1973, suggerisce la stessa dinamica, perché è corpo in opposizione al pensiero e però in relazione ad esso si trasforma, si accorge dello sguardo e sembra così modificare, forse inconsapevolmente, il suo modo di restituire la visione, di essere dentro, consistere l’immagine. Dunque il vigore del corpo giovane – la danza ne è massima espressione – si oppone al decadimento della vecchiaia, inquadrando così, nell’equilibrio difficile tra apollineo e dionisiaco, come Aschenbach indugi sul confine della dignità, nonostante cerchi strategie per porvi rimedio si trova spesso in condizioni vicine al ridicolo, a cedere totalmente alla deriva dionisiaca. È evidente nel dialogo con il barbiere – anch’esso un presagio come il parallelo tra la gondola e la bara, la macchina fotografica con un drappo nero o la sabbia che si strozza nella clessidra – quel tentativo alla Dorian Gray di fermare la caducità coprendone i segni con una maschera (i capelli tinti, la cera sul volto, le labbra dipinte da «un bel colore di fragola»), che però, come evidente nel film di Visconti, rivela un carattere posticcio e, mentre Tadzio sembra indicare lontano l’orizzonte, scioglie il trucco al caldo morboso dell’ultima spiaggia.
I due corpi, vicini e pur eternamente lontani, restano due entità differenti anche se di continuo si sfiorano, si toccano appena per poi respingersi, un po’ come accade in teatro nel punto di confine tra il palco e la platea; Aschenbach è Icaro, rifiuta di tornare in sé, tornare indietro e chiede alla bellezza dell’arte qualcosa che non gli può dare, la coesistenza dell’armonia appagante e della tensione al desiderio si infrange in una perenne insoddisfazione che conduce, inesorabile, alla distruzione. L’artista Aschenbach lo sa, sta scegliendo un salto nel vuoto, il contagio deliberato con un morbo mortale, trovando in Venezia, la città infetta e ammaliante che ha in sé qualcosa di eterno e insieme transitorio, il riflesso speculare di un Narciso che non coglie il limite e che, di troppa bellezza, finirà per morire.
Nata a Rovereto nel 1991, nel 2010 si sposta a Milano per frequentare il corso di formazione per danzatori della scuola civica Paolo Grassi. Oltre al percorso triennale partecipa a vari workshop internazionali. Negli anni lavora come interprete per Enzo Cosimi e collabora con autrici/autori con percorsi e linguaggi variegati come Cristina Rizzo, Luca Veggetti, Francesco Marilungo, Irene Russolillo, Camilla Monga, Ariella Vidach. Dal 2015 si affaccia al mondo della prosa grazie alla collaborazione con la compagnia The Baby Walk (nel progetto Trilogia sull’identità). Nel 2018 è tra le finaliste del Premio Ubu in categoria miglior performer under 35. Fa parte di alcune realtà milanesi accumunate dall’interesse per la transdisciplinarietà (in campo performativo) come Kokoschka Revival, Fragile Artists e muovimi.
Autore e regista italiano. Debutta nel 2016 con la sua prima scrittura e regia, Todi is a small town in the center of Italy. Nel 2015 fonda la compagnia teatrale The Baby Walk e inizia a scrivere e dirigere la Trilogia sull’Identità, esplorando il tema della strutturazione del genere: Peter Pan guarda sotto le gonne (Capitolo I, 2015), spettacolo premiato al Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro, Stabat Mater (Capitolo II, 2017) con cui vince il Premio Hystrio Nuove scritture di Scena 2017, Un eschimese in Amazzonia (Capitolo III, 2017), vincitore del Premio Scenario 2017. Nel 2017 Antonio Latella seleziona tre suoi lavori alla Biennale di Teatro. Ancora alla Biennale di Teatro 2020, una menzione speciale è stata attribuita dalla giuria a La tragedia è finita, Platonov, sua riscrittura dell’omonimo testo di Anton Čechov. È tra gli autori selezionati a partecipare all’edizione speciale École des Maîtres 2020, dedicata ai drammaturghi europei. È attualmente artista associato presso il Piccolo Teatro di Milano, per il quale ha realizzato Hedda. Gabler. Come una pistola carica (2022) da Ibsen e Come tremano le cose riflesse nell’acqua (2024), tratto dal Gabbiano di Čechov. Nel 2021 Marsilio Editori ha pubblicato il suo esordio nella narrativa: Sarà solo la fine del mondo. Con la produzione di MARCHE TEATRO, CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Metastasio di Prato ha messo in scena nel 2022 il testo Uno spettacolo di fantascienza _quante ne sanno i trichechi.
Davide Enia
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