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Liv Ferracchiati, Alice Raffaelli

La morte a Venezia

libera interpretazione di un dialogo tra sguardi

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Duration 60 minutes
Theater

Synopsis

A camera on a tripod at the edge of the waves and a writer who dies on a beach from eating cholera-contaminated strawberries symbolize the unexplored within each of us.

Not a theatrical adaptation of La Morte to Venice, but a scenic journey freely inspired by the novel that combines three different languages: speech, dance and video.

Detached from the theme of homoeroticism and age difference, the encounter to Venice between Gustav Von Aschenbach and Tadzio remains, death remains.

Two strangers experiencing what Mann summarizes thus, "There is nothing more singular, more scabrous, than the relationship between people who know each other only through a glance."

The attempt is to bring these two characters to us closer and, at the same time, to tell the story of the fatigue of writing and how this fatigue, in the end, is torn apart from rare, beautiful and terrible moments made up of encounters with other human beings.

Ironically, third character is the Word, which first seeks a harmony in a crystallized form and then breaks free, materializes, turns on, finds its own whimsical form, however ridiculous and vain in the face of the unaccountable.‍

Liv Ferracchiati

Credits

Program

inspired to Death to Venice by Thomas Mann

dramaturgy and direction by Liv Ferracchiati

with Liv Ferracchiati and Alice Raffaelli

Alice Raffaelli movement

dramaturg Michele De Vita Conti

assistant director Anna Zanetti / Piera Mungiguerra

assistant dramaturgy Eliana Rotella

scenes Giuseppe Stellato

costumes Lucia Menegazzo

lights Emiliano Austeri

red shoulder sound

voice of Tadzio Weronika Młódzik

literary advisor Marco Castellari

Spoleto production Festival dei Due Mondi, Marche Teatro_Teatro di Rilevante Interesse Culturale, Teatro Stabile dell'Umbria, Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini

in collaboration with Piccolo Teatro di Milano -Teatro d'Europa

Premiere

INFORMATION

The kind audience is advised that at the beginning of the performance there will be a short video shot (not recorded) from the stage to the auditorium. The shot is projected live for less than a minute on a screen located on the stage.

Hall Program

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Venice and the erosion of beauty

Text by Simone Nebbia

Un uomo è seduto, fasciato da una coperta sul ponte del vaporetto, misura la propria immobilità al movimento invece lento, silente, che avvicina la barca a Venezia, avvolta come l’uomo in una nebbia muta che tiene basso il mare. Mentre l’imbarcazione procede verso il porto, si svela anche il volto dell’uomo, il cui turbamento traspare in un’increspatura delle recenti rugosità senili, proprio nel momento in cui un suono di tromba di un’esercitazione militare squarcia il velo e con sinistra potenza rivela la terraferma.
Si direbbe che questa sia l’immagine con cui si apre al lettore La morte a Venezia di Thomas Mann, notissimo e breve romanzo pubblicato nel 1912 dall’autore tedesco che sarà Premio Nobel nel 1929; eppure, tra le prime pagine del libro, questa scena non compare se non dopo un lungo prologo in cui il professor Gustav (che aveva conquistato il titolo di: von) Aschenbach è ancora nella sua Monaco di Baviera, prima ancora di risolversi per un viaggio che lo vedrà giungere, non subito, nella città lagunare. Questa prima scena, che resta negli occhi perché in tal modo si apre il film omonimo di Luchino Visconti del 1971, rivela però un particolare determinante: si avverte come non sia il personaggio ad andare verso Venezia ma l’esatto opposto, questa città animata da una voracità stantia entra nella vita di Aschenbach come una lenta erosione, la stessa con cui il mare da secoli la assedia. La Venezia spettrale, torva, che cova il morbo omicida lungo ogni pagina del romanzo, pur dialogando con la morte già nel titolo di essa non è la causa, ma il compimento, perché il personaggio inizia a morire ben prima, muore come una conseguenza fluida di un progressivo disarmo, quando Aschenbach cioè accoglie l’idea della dispersione, la perdita del controllo, la rassegnazione alla bellezza come scomparsa del sé nel tutto. La causa scatenante di questo lento abbandono alla bellezza è la visione di un giovane efebico, in vacanza al Lido con la famiglia polacca, nel suo stesso albergo, che attrae il professore fin dalla prima immagine, scatenando in lui un interesse non immediatamente voluttuoso, non carnale, ma come fosse una promessa di estasi la vista di Tadzio, questo il nome del giovane, misura l’equilibrio formale in cui ha modellato la propria stimata opera letteraria e vi scorge, profonda, una crepa. La domanda è quella d’artista che ha attraversato l’intero Novecento: percorrerla come il tratteggio di un’incertezza o ignorarla a protezione della propria raggiunta fama? Aschenbach, dopo dubbi e turbamenti, in bilico tra conservazione e rivoluzione – non a caso negli anni Dieci del secolo nuovo – si vedrà costretto ad accogliere la naturale pendenza del proprio istinto, rifiutando una fuga che poteva essere salvezza da una morte annunciata.
Liv Ferracchiati sceglie ora di porre l’attenzione sull’inquietudine oscura di un uomo, uno scrittore, che sembra specchiare la sfrontata ambizione della gioventù e quella stessa aspirazione, non più malsicura, ritrovata nella maturità; tale riflesso, tuttavia, è un proibito altro rispetto alla ricerca di un rapporto con il giovane adolescente, come invece traspare dal film di Visconti, si tratta dell’attrazione verso la possibilità di gettarsi nella corruzione e quindi liberazione di sé, al fine di scrivere o di vivere, ricercare quella ispirazione che scaldi, accenda l’esistenza. Aschenbach parla poco con gli altri personaggi, apparizioni per lo più, allo stesso modo del rapporto del tutto muto con Tadzio («Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo», dirà lo stesso Mann): è un uomo solo, eppure non è isolato dagli altri, è lui stesso che si isola dal contesto perché ha bisogno di osservare dentro e fuori di sé, appare come una torre che svetta oltre le mura, dunque incarna la condizione d’artista ben definita dagli espliciti lemmi in lingua inglese: la sua non è loneliness, non è un solitario, diversamente egli sceglie di compiere da solo quell’ultimo viaggio, è dunque alone, ossia all e one, tutto in uno.
Non siamo di fronte a un adattamento per il teatro, bensì a una versione performativa e installativa che sceglie due elementi cardinali: la danza di Alice Raffaelli e una videocamera azionata dallo stesso regista, la cui voce monologante ne segue i movimenti. L’intenzione è dunque quella di raccogliere da Mann non una trama ma delle suggestioni da misurare a sé e al tempo presente. In tale processo quello della videocamera live, proprio perché la macchina deve costruire il movimento della ripresa, è uno sguardo voyeuristico che cambia l’oggetto dell’osservazione, perché acuisce l’ossessione di Aschenbach, la penetra come rompesse un velo di distanza, ma allo stesso tempo l’occhio resta precauzionalmente alle spalle del filtro: non visto, vede. E Tadzio, la danzatrice che è presenza ondivaga come anche nell’opera omonima composta da Benjamin Britten nel 1973, suggerisce la stessa dinamica, perché è corpo in opposizione al pensiero e però in relazione ad esso si trasforma, si accorge dello sguardo e sembra così modificare, forse inconsapevolmente, il suo modo di restituire la visione, di essere dentro, consistere l’immagine. Dunque il vigore del corpo giovane – la danza ne è massima espressione – si oppone al decadimento della vecchiaia, inquadrando così, nell’equilibrio difficile tra apollineo e dionisiaco, come Aschenbach indugi sul confine della dignità, nonostante cerchi strategie per porvi rimedio si trova spesso in condizioni vicine al ridicolo, a cedere totalmente alla deriva dionisiaca. È evidente nel dialogo con il barbiere – anch’esso un presagio come il parallelo tra la gondola e la bara, la macchina fotografica con un drappo nero o la sabbia che si strozza nella clessidra – quel tentativo alla Dorian Gray di fermare la caducità coprendone i segni con una maschera (i capelli tinti, la cera sul volto, le labbra dipinte da «un bel colore di fragola»), che però, come evidente nel film di Visconti, rivela un carattere posticcio e, mentre Tadzio sembra indicare lontano l’orizzonte, scioglie il trucco al caldo morboso dell’ultima spiaggia.
I due corpi, vicini e pur eternamente lontani, restano due entità differenti anche se di continuo si sfiorano, si toccano appena per poi respingersi, un po’ come accade in teatro nel punto di confine tra il palco e la platea; Aschenbach è Icaro, rifiuta di tornare in sé, tornare indietro e chiede alla bellezza dell’arte qualcosa che non gli può dare, la coesistenza dell’armonia appagante e della tensione al desiderio si infrange in una perenne insoddisfazione che conduce, inesorabile, alla distruzione. L’artista Aschenbach lo sa, sta scegliendo un salto nel vuoto, il contagio deliberato con un morbo mortale, trovando in Venezia, la città infetta e ammaliante che ha in sé qualcosa di eterno e insieme transitorio, il riflesso speculare di un Narciso che non coglie il limite e che, di troppa bellezza, finirà per morire.

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Biographies

Alice Raffaelli

Born to Rovereto in 1991, in 2010 she moved to Milan to attend the training course for dancers at the Paolo Grassi Civic School. In addition to the three-year course she participates to various international workshops. Over the years he has worked as a performer for Enzo Cosimi and collaborated with authors with varied paths and languages such as Cristina Rizzo, Luca Veggetti, Francesco Marilungo, Irene Russolillo, Camilla Monga, Ariella Vidach. Since 2015 she enters the world of prose thanks to the collaboration with the company The Baby Walk (in the project Trilogy on Identity). In 2018 she is among the finalists of the Ubu Prize in the category best performer under 35. She is part of some Milanese realities accumulated by the interest in transdisciplinarity (in the performative field) such as Kokoschka Revival, Fragile Artists and muovimi.

Liv Ferracchiati

Italian author and director. He debuted in 2016 with his first writing and directing, Todi is to small town in the center of Italy. In 2015 he founded the theater company The Baby Walk and began to writing and directing the Identity Trilogy, exploring the theme of gender structuring: Peter Pan looks under the skirts (Chapter I, 2015), a show awarded the National Young Theater Realities Prize, Stabat Mater (Chapter II, 2017) with which he won the Hystrio Nuove scritture di Scena 2017 Prize, Un eschimese in Amazzonia (Chapter III, 2017), winner of the 2017 Premio Scenario. In 2017, Antonio Latella selected three of his works at the Theatre Biennale. Again at the 2020 Theatre Biennale, a special mention was given by the jury to Tragedy is Over, Platonov, his rewrite of Anton Čechov's text of the same name. He is among the selected authors to participating in the special edition École des Maîtres 2020, dedicated to European playwrights. He is currently an associate artist at the Piccolo Teatro in Milan, for which he created Hedda. Gabler. Like a Loaded Gun (2022) from Ibsen and How Things Reflected in Water Quake (2024), based on Chekhov's The Seagull. In 2021 Marsilio Editori published his fiction debut, Sarà solo la fine del mondo. With the production of MARCHE TEATRO, CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Metastasio di Prato he staged in 2022 the text A science fiction play _quante ne sanno i trichechi.

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