Davide Enia
Autoritratto
Nel 2022 ha scelto Spoleto per festeggiare i vent’anni di carriera con il monologo Italia – Brasile 3 a 2. Il ritorno. Ora Davide Enia torna al Festival con un autoritratto al contempo intimo e collettivo con cui affrontare Cosa Nostra attraverso un processo di autoanalisi.
«Non volere capire in assoluto la mafia in sé, quanto cercare di comprendere la mafia in me».
Facendo ricorso al vocabolario teatrale della sua Palermo – il corpo, il canto, il dialetto, il pupo, la recitazione, il cunto – Enia porta in scena una tragedia, ma anche una orazione civile, un confronto con lo Stato, una serie di domande a Dio in persona. E lo fa prendendo in esame un caso particolare, un vero e proprio spartiacque nella coscienza collettiva: il rapimento e l’omicidio di Giuseppe di Matteo, il bambino figlio di un collaboratore di giustizia, rapito, tenuto per 778 giorni in prigionia in condizioni spaventose e infine ucciso per strangolamento per poi venire sciolto nell’acido. Una storia disumana che si configura come l’apparizione del male, il sacro nella sua declinazione di tenebra.
«In una culla culturale in cui ’a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice”, la miglior parola è quella non detta, che si configura come prima soglia dell’omertà, affrontare per davvero Cosa Nostra significa iniziare un processo di autoanalisi. A Palermo tutti quanti abbiamo pochissimi gradi di separazione con Cosa Nostra. Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola. Conoscevo il giudice Borsellino, abitava di fronte casa nostra, sono cresciuto giocando a calcio con suo figlio. E padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia, era il mio professore di religione al liceo».
Con Autoritratto Enia scava a fondo in una realtà in cui la mafia rappresenta uno specchio della vita familiare, dei processi decisionali e operativi, del modo di osservare il mondo e intendere le relazioni, del rapporto con la religione. Una «nevrosi collettiva» da affrontare, sviscerare e con cui finalmente fare i conti.
di e con Davide Enia
musiche Giulio Barocchieri
luci Paolo Casati
suono Francesco Vitaliti
co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi
Si avvisa che le date e gli orari potranno subire variazioni.
Per aggiornamenti consultare il sito www.festivaldispoleto.com
Davide Enia, Autoritratto con mafia
Testo di Massimo Marino
Davide Enia nella creazione dei suoi spettacoli procede per turbolenze. Nelle storie che racconta intarsia ricordi, sensazioni, smarrimento, pensieri, reazioni, indignazioni... Inizia a metterne insieme le tessere studiando archivi e documenti, interroga persone che ai fatti sono state vicine, guarda fotografie, va sui luoghi e si confronta con i segni lasciati dalle azioni. Il suo è un teatro della memoria che già nella fase della composizione magmatica dello spettacolo si progetta come teatro del corpo, del corpo voce, del corpo canto, che rivive cose, fatti, persone, conflitti trasformandoli in una musica tutta particolare, una musica del cuore, della ragione, della sensazione, propiziata per lo più dalla chitarra amica e virtuosissima di Giulio Barocchieri.
In questo modo in Italia-Brasile 3 a 2 ha raccontato la partita di calcio della sua infanzia (è nato nel 1974), quella dei Mondiali del 1982, con una vittoria che diede entusiasmo a una nazione calcisticamente depressa e in preda alle contorsioni seguite agli scontri degli anni Sessanta e Settanta: l’ha narrata in un interno palermitano, in un appartamento ma anche nei ballatoi e sui balconi del palazzo, con un intreccio di voci di parenti, di vicini, di folgorazioni di vita.
Così in Maggio ’43 è andato indietro fino ai bombardamenti sul capoluogo siciliano di quella primavera di guerra, servendosi di testimoni e del suo sguardo che tante volte aveva interrogato gli squarci, i vuoti lasciati nella città dalle bombe.
Così in Abisso ha interpretato, come una sinfonia composta di movimenti stridenti, di intime riflessioni, di appassionata pietà, le tragedie di Lampedusa, gli arrivi di uomini e donne dal di là del mare, i naufragi, le morti, in un dialogo serrato oltre i silenzi col padre medico e fotografo per passione e con lo zio gravemente malato, un viaggio nel dolore e nell’esplosione delle esistenze e del linguaggio.
A questi e ad altri spettacoli possiamo associare il romanzo Così in terra del 2012, storia di pugili e di aspirazioni che attraversano cinquant’anni di storia siciliana, dalla guerra d’Africa alle stragi di mafia che troncarono le vite dei giudici Falcone e Borsellino.
Queste opere trascinanti, centrate su un personaggio principale, spesso giovane, ingenuo, incantato, circondato da una polifonia di voci, quelle di una complessa città del Sud, vanno oltre la memoria storica e l’autobiografia. Sono piuttosto densi, chiaroscurali autoritratti dell’autore e della sua città, di un io che si vede crescere, sognare, esistere in un luogo pieno di contrasti, in un mondo che comunque ama, che cerca di capire perché offenda in tanti momenti, profondamente, la sua voglia di vivere. In questo senso l’autoritratto, pieno di sbavature, di cancellazioni, di vere e proprie esplosioni di colori e di deformazioni delle figure, il ritratto «alla Francis Bacon» (è un suggerimento di Enia), diventa appassionato dolente quadro d’ambiente, una deflagrata Guernica del ventunesimo secolo che cerca pause di pace, sorriso e socialità nella devastazione.
Autoritratto si intitola lo spettacolo che Davide Enia porta al Festival dei Due Mondi a Spoleto. Nel momento in cui scrivo questa nota la materia è ancora in subbuglio, in attesa di sistemazione. Sappiamo, da un’anticipazione fatta a Radio 3, che a un certo punto narrerà l’attentato al giudice Borsellino, come lo visse Davide, che abitava di fronte alla casa del giudice.
Era un caldo luglio. I genitori del ragazzo erano in vacanza. Egli stava preparando la maturità con un’amica e sentì un botto, lontano. Guardò fuori e tutto sembrava a posto. Poi venne a sapere dell’esplosione, dell’assassinio perpetrato altrove, davanti alla casa della madre del giudice, in via D’Amelio.
Ancora: come una vanniata, un grido di vendita degli ambulanti palermitani, lo spettacolo inizierà con una affermazione: «Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola». Rievocherà l’assassinio di don Pino Puglisi, professore di religione di Enia, e l’attentato mortale a Giovanni Falcone a Capaci. Qui le parole esploderanno, come nel cunto, il racconto delle gesta dei paladini di Carlo Magno, quando le battaglie si fanno cruente e gli accenti della frase si spostano, il dire si fa sincopato, le parole esplodono nel cozzo di spade o scudi o, come in questo caso, sotto il fragore del tritolo che spezza vite e sogni.
Ma il centro dello spettacolo – anticipa l’autore – sarà il feroce omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia, «rapito, tenuto per 778 giorni in prigionia in condizioni spaventose e infine ucciso per strangolamento per poi venire sciolto nell’acido. Una storia disumana che si configura come l’apparizione del male, il sacro nella sua declinazione di tenebra».
Il male contiguo alle vite di tutti i giorni. Anticipa ancora l’autore, che trasfigurerà nel suo corpo e nella sua voce, nella sua sensibilità, tutto il materiale che sta raccogliendo studiando documenti, intervistando persone, con la collaborazione di tre ex-funzionari dell’Antimafia in pensione, che lo aiutano a percorrere le sterminate pagine processuali: «In una culla culturale in cui ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella non detta, che si configura come prima soglia dell’omertà, affrontare per davvero Cosa Nostra significa iniziare un processo di autoanalisi. A Palermo tutti quanti abbiamo pochissimi gradi di separazione con Cosa Nostra».
Questo spettacolo è analisi, calda, bollente, ma anche autoanalisi, profonda: «Io non ho nessun ricordo del 23 maggio 1992. Non ricordo dove fossi, con chi, quando e dove ho appreso la notizia della bomba in autostrada che ha ucciso il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e alcuni agenti della scorta. I miei parenti, i miei amici, i miei compagni, tutte le persone che conosco hanno un chiaro ricordo di quel giorno. Io ho un vuoto che non si riempie. Le mie difese emotive hanno operato una rimozione tanto profonda quanto dolorosa. Ma non è la rimozione una degli effetti della nevrosi? In Sicilia praticamente tutti abbiamo avuto, almeno fino alle stragi, un rapporto di pura nevrosi con Cosa Nostra. È un discorso che ha a che fare con la coscienza collettiva condivisa, con la pratica del quotidiano, con strutture di pensiero millenarie. Per diverse ragioni, da noi la mafia è stata minimizzata, sottostimata, banalizzata, rimossa o, al contrario, mitizzata. Ovvero: non è mai stata affrontata per quello che è. E, a questo sfocamento dell’oggetto da studiare, è corrisposta una inconscia introiezione di quelle identiche modalità di comportamento, stesse pratiche, simili scatti emotivi. Per uno sguardo che indugia su un particolare, a Palermo può partire un aggàddo, una rissa. Il padre che impone al figlio l’iscrizione a una data facoltà universitaria moltiplica la logica del patriarca cui si deve obbedire. La difficoltà di nominazione del desiderio e la conseguente consegna alla dittatura del silenzio rende la logica del Potere pronta ad aggredire e a imporsi con maggiore facilità. Questo è quindi uno dei problemi che abbiamo con Cosa Nostra: in una maniera dolorosa e sconcertante, a volte la mafia rappresenta uno specchio della nostra vita familiare, dei nostri processi decisionali e operativi, del nostro modo di osservare il mondo e intendere le relazioni, del nostro rapporto con la religione. Sono tutte operazioni che scavano a livello inconscio, e che proprio nella comune base linguistica creano le prime cicatrici emotive».
E questo racconto pone domande anche al teatro: perché agire tutto questo in scena? Può il pirandelliano uscire e entrare nei fatti, nelle parti che indossiamo, sanare la nevrosi? Fino a che punto può spingersi l’azione scenica dentro la verità, in quella terribile verità di chi ha scannato senza pietà un bambino? La mafia è un teatrino di pose, di frasi, di rituali: come possono gli altri nostri rituali della reviviscenza teatrale scalzarla? Cosa è, infine, e cosa può o cosa non può il teatro?
Autore, regista e interprete degli spettacoli Italia-Brasile 3 a 2 (2002), maggio '43 (2004), L’abisso (2018), con i quali vince i più importanti premi di teatro italiani (Premio UBU, Premio Tondelli, Premio ETI, Premio Mezzogiorno, Premio Hystrio, Premio Maschere del Teatro, Premio Gassman). Così in terra (2012) è il primo romanzo, con cui vince il Prix du Premier Roman Etranger e il Prix Brignoles come miglior romanzo straniero in Francia. Con il secondo romanzo, Appunti per un naufragio (2017) vince il Premio Mondello, il Premio Mondello Giovani e il Premio Super Mondello. È artista associato al Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, dove mette in scena a giugno 2023 Eleusi, rito teatrale di ventiquattr’ore che coinvolge oltre seicento persone, tra performer e cantanti di cori sacri. I suoi testi sono tradotti in più di sedici lingue e rappresentati in diversi paesi europei. Autoritratto (2024) è il suo nuovo lavoro in teatro.
Antonio Latella
Leonardo Lidi
Luca Marinelli
Fabian Jung