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Rhiannon Giddens & Francesco Turrisi

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Durata 90 minuti
Musica

Sinossi

Per la prima volta al Festival, la cantante, compositrice e polistrumentista Rhiannon Giddens – fra le artiste americane rivelazione di questi ultimi anni – porta a Spoleto la sua “black non-black music”, facendo rivivere una storia dimenticata di schiavitù.

Ripercorrendo la tradizione folk gaelica, americana, afroamericana, nativo americana e la loro influenza sulla musica europea e americana, Giddens riversa fuoco e energia in canzoni potenti che prendono di mira la discriminazione. A suo agio nel cantare “torch songs” in un bar fumoso, nell’accompagnarsi con il banjo o nel cantare l’opera in una sontuosa produzione Giddens mescola country, blues, jazz e gospel esplorando le vite di persone messe a tacere, dagli schiavi, alle vittime degli omicidi per i diritti civili degli anni Sessanta, agli adolescenti uccisi dalla polizia nelle strade dei centri urbani.

«Sono mista». – afferma Giddens – «Mio padre è bianco, mia madre è nera. E ho imparato costantemente ad andare avanti e indietro tra un mondo e l’altro. E questo mi ha reso ciò che sono».

Nata a Greensboro, nella Carolina del Nord, alla fine degli anni Settenta da padre europeo-americano e madre afro-nativo americana – sposati soltanto tre anni dopo la storica sentenza Loving v. Virginia che consentiva i matrimoni interraziali grazie all’abolizione delle leggi anti-miscegenazione – Giddens, dopo gli studi in canto lirico, ha frequentato la musica irish e imparato il fiddle da vecchi maestri afroamericani.

Con lei sul palcoscenico di Piazza Duomo c’è Francesco Turrisi, polistrumentista di origini italiane, suo compagno anche di vita. Come Giddens, Turrisi viene da esperienze eterogenee ed è spalla perfetta, tra tamburelli assortiti di varia provenienza, pianoforte e fisarmonica, che suona con tocco molto originale.

Vincitori ai Grammy 2022 nella categoria Best Folk Album, i due artisti interpretano a Spoleto una selezione dai loro album there is no Other e They’re Calling Me Home, in una celebrazione di esperienze condivise.

Crediti

Programma

Programma di Sala

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Incontrarsi e fare musica

Testo di Jacopo Tomatis

Poche storie sono americane – nel bene e nel male – come quella del banjo. Derivato da vari liuti diffusi nell’Africa nord-occidentale, il banjo sbarca nel Nuovo Mondo insieme agli schiavi. Già nell’ultimo quarto del Seicento abbiamo traccia di uno strumento piuttosto simile in Martinica, chiamato banza. Alla fine del secolo successivo lo ritroviamo in un acquerello, suonato da uno schiavo nero vestito alla maniera dei coloni europei, in una piantagione del South Carolina.

Avanti veloce, arriviamo all’Ottocento e al successo del minstrel show, genere di intrattenimento popolare che è quanto di più problematicamente “americano” si possa incontrare, per come racconta della storia di violenza (simbolica, in questo caso) fra afrodiscendenti ed europei: il preludio a una lunga vicenda di scambi, furti, sopraffazioni e riappropriazioni che caratterizza buona parte della musica statunitense successiva. Le canzoni che vi compaiono, e che in molti casi sono diventati degli standard (ad esempio, “Oh Susannah”, o “Camptown Races”) sono scritte da compositori bianchi come parodia della musica degli schiavi neri, eseguite in blackface da performer bianchi che dei neri prendono in giro la parlata e lo stile esecutivo… e per complicare ancora di più il quadro, il successo del genere è tale che ben presto vi si dedicano anche musicisti neri, spesso a loro volta in blackface… Al centro, come strumento principale, c’è naturalmente il banjo.

Il quale, intanto, si va affermando come strumento prediletto delle popolazioni rurali bianche e nere, soprattutto nel Sud del Paese. La sua fortuna in quest’area racconta, ancora, delle relazioni fra la comunità degli schiavi e quella degli americani di origine europea (che “in cambio” offrono il violino, destinato a entrare stabilmente tanto nel minstrel quanto nelle string bands di bluegrass).

A questo punto le traiettorie del banjo “nero” e di quello “bianco” cominciano a divergere sempre di più. C’entra la Grande Migrazione, quando 6 milioni di africano americani lasciano il Sud segregato per spostarsi nelle città, finendo con l’adottare la chitarra, che a breve sarà elettrificata, al centro di nuove musiche altrettanto elettrizzanti. C’entrano i folkloristi, che registrano i banjoisti bianchi lasciando fuori dal nastro quelli neri: la vicenda di Cecil Sharp e Maud Karpeles, ad esempio, che negli anni della Grande Guerra battono l’area degli Appalachi documentando le tracce delle vecchie ballate britanniche, racconta di come un’area rurale e isolata, abitata da bianchi e neri, ha finito con il rappresentare nell’immaginario popolare il cuore della “vera” America bianca. E c’entrano, naturalmente, i nuovi media, su tutti la radio e il disco, che specializzano i repertori e targettizzano il loro pubblico anche sulla base del colore della pelle. Da un lato, i race records rivendono ai neri la “loro” musica, il blues e il jazz (dove nei primi anni il banjo ha un ruolo centrale come strumento ritmico: per questa via arriverà in Europa, affermandosi anche in Italia). Dall’altro, le stesse etichette discografiche inventano anche quello che viene chiamato hillbilly, che diventerà poi il country & western. Ovvero la musica dei rednecks, della working class bianca americana, la cui icona sonora diviene – guarda un po’ – proprio il banjo. In effetti, se prima di leggere queste righe avete cercato nella vostra mente l’immagine di un banjo, probabilmente avete visualizzato un bianco in salopette con un cappello da cowboy (anche Google images rafforza lo stereotipo: provare per credere!).

Nulla di più lontano – naturalmente – da Rhiannon Giddens. Ma in fondo, se mi sono dilungato sulla storia del banjo come emblematica di quei rapporti di scambio (non sempre equo) e separazione (non sempre pacifica) che stanno alle radici della musica e della cultura americane, è perché la sua vicenda biografica e artistica sembra in qualche modo rispecchiarsi in essa. E non solo perché lei stessa, in una bellissima lectio magistralis per una conferenza della International Bluegrass Music Association nel 2017, si è definita una die-hard banjo nerd and activist (“irriducibile nerd e attivista del banjo”; a proposito: il modello con cui di solito si esibisce è un minstrel banjo, senza tasti).

Nata alla fine degli anni settanta a Greensboro, North Carolina, nella regione del Piedmont (il lungo altopiano che costeggia gli Appalachi), Giddens è figlia di un’unione mista. Dal lato della madre ha eredito la discendenza africano americana e nativa americana. La famiglia del padre è invece bianca, ed era attiva nella locale scena della old time music. Lo ha raccontato lei stessa: “mio padre è fuggito dal bluegrass e si è trasferito nella brulicante metropoli di Greensboro per diventare un chitarrista hippie”, salvo poi “vedere la sua unica figlia finire con il suonare il banjo”.

Alla metà degli anni Zero, Giddens – che suona molto bene anche il violino nello stile bluegrass – fonda i Carolina Chocolate Drops, la prima string band tutta composta da africano americani a esibirsi sul palco dell’iconico Grand Ole Opry, il tempio della musica country. “Ho sempre sentito il disagio di essere il chicco di uvetta nella zuppa d’avena”, ha spiegato Giddens nella lectio sopra citata. E tuttavia, il suo lavoro e la sua ricerca sono anche il tentativo di “andare oltre le narrazioni che abbiamo ereditato”, per riconoscere infine la natura di musica creola del bluegrass. Una musica nata dall’incontro fra culture diverse, e dunque compiutamente “americana” – nel bene e nel male.

Questa riscrittura delle tradizioni americane da una diversa prospettiva – razziale, per quanto possa essere sensato oggi usare questo concetto, ma anche di genere – è una costante del lavoro di Giddens anche nel suo percorso successivo, che la porta ben oltre i confini del bluegrass. Ad esempio nello splendido progetto Songs of Our Native Daughters, sviluppato per Smithsonian Folkways con tre musiciste africano americane (tutte anche banjoiste) di varia discendenza: Amythyst Kiah dal Tennessee, la haitiano-americana Leyla McCalla e la canadese Allison Russell.

E tuttavia, se si limita il percorso di Giddens alla rilettura “postcoloniale” del folk americano si rischia di banalizzare la sua ricerca musicale. Nella sua formazione coesistono da subito la musica irlandese e il canto lirico (che ha studiato al college), il folk e la musica eurocolta. Negli anni si è trovata a duettare tanto con Yo-Yo Ma quanto con Ben Harper, a cantare tanto Monteverdi e Purcell quanto le ninna nanne del Sud Italia. Nel suo album They’re Calling Me Home (Grammy 2022 nella categoria Best Folk Album) si cimenta senza problemi con “Si dolce è ‘l tormento” e con “Nenna nenna”, mentre dal vivo (parlo per testimonianza diretta) può anche capitare di sentirle interpretare Mina…

Da diversi anni ormai Giddens – che ora vive in Irlanda – collabora con Francesco Turrisi, suo compagno fisso sul palco e nella vita, al quale probabilmente si devono le più recenti aperture “italiane”. Turrisi è infatti torinese di nascita, ha studiato pianoforte jazz al Conservatorio dell’Aia, si è occupato di musiche afroamericane ma anche di suoni del Mediterraneo come percussionista e fisarmonicista, o di musica antica con L’Arpeggiata...

Insomma, un’altra storia affascinante che non abbiamo tempo di raccontare – ma che in fondo è la stessa storia di Rhiannon Giddens (o del banjo, almeno a volerne ricavare le note positive): quella di come le persone di varie parti del mondo si incontrano, si ascoltano, e a volte finiscono con il fare musica insieme. Se c’è un messaggio importante da trarne, in fondo, è solo questo.

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Date & Biglietti

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Biografie

Rhiannon Giddens

Vincitrice del MacArthur "Genius Grant", Rhiannon Giddens è co-fondatrice dei Carolina Chocolate Drops, vincitori di un Grammy Award. Nel corso della sua carriera, viene nominata per altri sei Grammy fra cui quello per la sua collaborazione con il polistrumentista Francesco Turrisi, nel 2019, per There is no Other. L'album They're Calling Me Home, disco di dodici tracce registrato con Turrisi in Irlanda durante il lockdown dovuto alla pandemia di Covid-19, parla di nostalgia e di perdita. Tra i numerosi successi della sua carriera, Giddens si è esibita per gli Obama alla Casa Bianca, è stata curatrice di Perspectives alla Carnegie Hall e ha ricevuto il Legacy of Americana Award dal National Museum of African American History di Nashville in collaborazione con l'Americana Music Association. Hanno scritto di lei il CBS Sunday Morning, il New York Times, il New Yorker e Fresh Air della NPR, tra i tanti. Nel 2019, Giddens è presente nella serie Country Music di Ken Burns, in onda su PBS, dove parla delle origini afroamericane della musica country. È anche membro della band Our Native Daughters con altre tre suonatrici di banjo di colore, Leyla McCalla, Allison Russell e Amythyst Kiah, e ha co-prodotto il loro album di debutto Songs of Our Native Daughters (2019), che racconta di sopravvivenza e di donne nere che hanno fatto la storia. Nominata direttore artistico di Silkroad nel 2020, Giddens ha sviluppato una serie di nuovi programmi per questa organizzazione, tra cui uno ispirato alla storia della ferrovia transcontinentale americana con un richiamo alle tradizioni musicali e alle diverse culture dei suoi costruttori. Nel 2019, scrive la musica per il balletto Lucy Negro Redux, per il Nashville Ballet, e il libretto e la musica per l'opera Omar, basata sull'autobiografia dell'uomo ridotto in schiavitù Omar Ibn Said per il Festival di Spoleto USA, nel 2022. Come attrice, Giddens ha avuto un ruolo di primo piano nella serie televisiva Nashville.

Francesco Turrisi

Polistrumentista vincitore di un Grammy Award, è stato definito dalla stampa un "alchimista musicale" e un "poliglotta musicale". Francesco Turrisi lascia l’Italia nel 1997 per studiare pianoforte jazz e musica antica al Conservatorio Reale dell'Aia, dove consegue una laurea e un master. Dal 2004 lavora con successo come musicista freelance. È stato membro del celebre ensemble di musica antica L'Arpeggiata, esibendosi nei più importanti festival di musica classica in Europa e nel mondo, e ha registrato per Warner, Virgin, Naive e Alpha. Turrisi ha pubblicato cinque album acclamati dalla critica come leader e due come co-leader: Tarab, innovativo ensemble che fonde musica tradizionale irlandese e mediterranea, e Zahr, progetto che indaga le connessioni tra la musica tradizionale del Sud Italia e la musica araba. Il suo ultimo album per pianoforte solo, Northern Migrations, è stato descritto come "delicato, malinconico e completamente coinvolgente" dall'Irish Times. Nel 2018 Turrisi ha iniziato a collaborare con la cantante e polistrumentista americana vincitrice di un Grammy Award Rhiannon Giddens. Insieme il duo ha pubblicato due album acclamati dalla critica: il progetto di debutto del 2019, There is no Other, e l'ultimo They're Calling Me Home, che si è aggiudicato il Grammy 2022 per il miglior album folk.

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