Lonnie Holley & Nelson Patton
Definito dal New York Times un «Insider’s outsider», Lonnie Holley è un eclettico artista afroamericano la cui pratica spazia dalla pittura, al disegno, alla scultura assemblata o in pietra arenaria fino alle performance che combinano musica sperimentale e poesia.
Nato nel 1950 in Alabama, quando erano ancora in vigore le leggi segregazioniste, la vita di Lonnie Holley sembra scritta da un romanzo : “rapito” da una ballerina di burlesque, all’età di quattro anni è venduto in cambio di una bottiglia di whisky, finisce in un riformatorio, fa il cuoco al Disney World, ritorna in Alabama e va a vivere ad Airport Hill. Una sera del 1979, mentre lui e sua sorella sono fuori, la casa prende fuoco e nell’incendio muoiono le due nipotine. Sconvolto, Holley realizza per la loro tomba una scultura con materiali recuperati in una discarica. È la prima di numerose opere, assemblaggi, serigrafie, metalli e oggetti di recupero.
Ma Holley ha ottenuto riconoscimenti anche per la sua musica e ha collaborato con i gruppi come Dirty Projectors e Animal Collective. Nei suoi brani affronta temi universali, come il destino del pianeta o il rapporto con la tecnologia, oltre a storie più personali, in bilico fra surrealismo e messaggio sociopolitico.
Il suo ultimo album, Oh Me Oh My vede la partecipazione di artisti come Justin Vernon dei Bon Iver, Sharon Van Etten, Moor Mother, Rokia Koné e Michael Stipe dei REM, ed è stato prodotto da Jacknife Lee (Modest Mouse, U2, REM).
Sullo sfondo delle sue stesse opere d’arte, accompagnato sul palcoscenico dal duo Nelson Patton, a Spoleto66 Lonnie Holley presenta una selezione di suoi brani in una commistione tra soul, musica d’avanguardia, jazz e blues primordiale.
voce Lonnie Holley
trombone e batteria Nelson Patton
Testo di Giovanni Coppola
Da qualche parte tra l’autentica eleganza gospel di Sam Cooke ed il magico trasformismo free-jazz di Sun Ra, descrivere come si muove il racconto musicale di Lonnie Bradley Holley somiglia ad essere assaliti da un flusso di coscienza palpitante ed estroso, quello di qualcuno che da oltre quarant’anni incontra intuizioni artistiche in luoghi sconosciuti e trasforma patemi vitali in arte imprevedibile, eppure sempre conscia. Capace di restituire armonia alla memoria e curiosità al futuro, in qualche modo ed allo stesso modo.
Nato nel 1950 a Birmingham, in Alabama, Holley ha dedicato la sua vita a una pratica di creatività improvvisata che spazia dalla pittura alla scultura, dal cinema alla musica. Settimo di ben 27 figli, la sua infanzia è stata costantemente concitata, al punto da trascorrere mesi in coma da bambino, dopo essere stato investito da un'auto, e condannato a tre anni di reclusione durante l'adolescenza. Dopo essere stato rilasciato, l’idea d’arte di Holley nasce una tragica notte del 1979, in cui un incendio porta via le due figlie della sorella, ed a cui Holley dedica la sua prima idea di scultura e serigrafismo di ispirazione ready-made, fatta di materiali di recupero ed oggetti della vita reale, e pittura. Nel coltivare questa passione, col tempo e sempre attraverso il concetto di arte del trauma, le sue opere arrivanno persino al Museum of Modern Art di New York, alla Biennale di Venezia e alla Casa Bianca. La vita di Lonnie Holley, insomma, sembra un romanzo in tutto e per tutto: cresciuto durante le leggi segregazioniste Jim Crow, viene “adottato” da una ballerina di burlesque itinerante che potrebbe averlo sottratto alla madre biologica. All'età di quattro anni fu venduto in cambio di una bottiglia di whisky, finì in un riformatorio, lavorò come cuoco al Disney World e si stabilì per qualche tempo ad Airport Hill, una collina vicino all'aeroporto di Atlanta, in Georgia.
Inutile puntualizzare come, nella sua idea di musica, le montagne russe di queste funanmobliche storie di vita riecheggiano fortissimamente. Influenzato da un’idea di blues, folk e jazz senza tempo, il suo obiettivo è sempre stato quello di ricreare un meta-reportage in presa diretta (ma anche indiretta) con forte focus sulle urgenze sociali, in cui si combinano temi universali come il destino del pianeta e il nostro rapporto con la tecnologia. E poi le storie di classe e di razza, la vita e l’amore visti attraverso la tela di un’America difficile da cambiare, che c’era e che per molti aspetti c’è ancora esattamente per come la sua esperienza trasuda. «Credo di essere stato scelta per essere un artista perché posso prendere la mia vita e raccontarla a qualcun altro. Per me è importante tenerne traccia», recitavano le liner notes del suo “Keeping a Record of It”, nel 2018. Per Lonnie, l'arte rappresenta una forma di libertà che esula da ogni convenzione di regola, un’espressione che si intreccia fra i tratti di sculture realizzate con materiali riciclati o per mezzo di intense catarsi spirituali e musicali: ogni atto creativo è vitale, unico, selvaggio e salvifico, insieme.
L’esordio discografico vero e proprio, per Lonnie è arrivato addirittura , poco più di dieci anni fa, nel 2012, con ”Just Before Music”, proiezione di un quartomondismo di Hasseliana memoria tra texture di blues spettrale ma sincero, dove spicca il carattere di rivalsa e l’idea che il passato debba rivivere tra le idee del futuro, ma cambiando. “Just Before Music” segna infatti un paradossale, tardivo debutto per Holley con un’opera prima musicale, eppure concentra dentro tutta la cinicità romanzata che gli scossoni della sua vita hanno fin lì raccontato, uniti a quegli stilemi di meta-narrazione che da qui in poi tramuterà sempre più in un linguaggio tutto suo. La sospensione del tempo, che spicca tra “Mama’s Little Baby” e “Fifth Child Burning”, è un tributo alla memoria e un monito ad esorcizzarla, che non è lì per farci male ma per essere superata.
Oltre a questa vita e questo pianeta ci sono altri luoghi, sembrano sussurrare i vocalizzi soul in “Planet Earth And Otherwheres”, raffermi tra ritmi flebili e un intreccio di blues futurista e spoken word, e il cerchio inizia a chiudere il passato per abbracciare l’avvenire: “Keeping a Record of It”, uscito un anno più tardi, certifica lo stesso intento, mentre comincia a delineare una linea stilistica ben precisa. All’interno, infatti, compaiono quasi a sorpresa Bradford Cox dei Deerhunter—di cui Holley si è sempre dichiarato grande fan—e Cole Alexander dei Black Lips: un’altra America, un altro modo di sacralizzare la musica e volare pindaricamente attorno ai suoi mondi altri. Perché in fondo è il primo tassello di un lungo vagabondaggio, per Holley, verso la commistione di identità sonore e caratteriali mai dome.
A certificare un’ambizione che non prevede regole prestabilite o percorsi tra binari conosciuti, “Mith” ci mette cinque anni a vedere la luce, e nel 2018 racconta un Holley deciso a cambiare ancora una volta passo. Tra gli echi delle affollate strade di New York e gli anni passati tra Oregon e Georgia, è un album che abbraccia una sperimentazione scrupolosa e verace allo stesso tempo. Si tratta degli albori della lunga (e tuttora attiva) collaborazione con il duo Nelson Patton, e le cui peculiari vocazioni post-jazz si fondono perfettamente all’istronicità del sassofonista Sam Gendel, insieme ad una leggenda dell’ambient “prima dell’ambient” Laraaji e Shahzad Ismaily alla co-produzione del disco.
Il duo, formato da Dave Nelson and Marlon Patton, nasce durante gli anni dell’Università ad Athens, in Georgia, dove prende campo nella scena dei gruppi jazz di forte impronta sperimentale, e che già aveva avuto un punto di contatto con l’artista di Birmingham, invitato a prestare la voce in quattro brani del loro debutto “Along the Way”, nel 2016. Di forte ispirazione minimalista e ambientale, la loro composizione poliritmica si tinge di sonorità orchestrali stratificata fra trombone, batteria ed elementi elettronici, in cui risalta il background in produzione ed ingegneria del suono, che tanto aveva colpito proprio Holley, e che tra i loro successivi “Last Year's Sunlight” e “Universal Process”, porta con sé il duo in tour per gli Stati Uniti e gli commissiona il brano "I Snuck Off the Slave Ship" per l'omonimo cortometraggio, diretto insieme a Cyrus Moussavi e presentato al Sundance Film Festival nel 2019.
In mezzo, anche a causa della prematura scomparsa del cantautore californiano Richard Swift nel 2018, vede la luce “National Freedom”, un tributo dove brucianti poetiche blues si mescolano a dub downtempo e divagazioni freeform al pianoforte, mentre piangono amori perduti e urlano di angosce. Frutto di sessions realizzate in studio con Swift qualche anno prima della sua morte, è probabilmente il tassello più ricco e maturo, fino al 2020, in termini di ricerca, che fa il paio con l’agitata esplorazione di eco tardo-krautrock di “Broken Mirror: A Selfie Reflection”, realizzato un anno più tardi con Matthew E. White, attestando come ormai la sua ricerca non abbia confini o necessità, ma solo voglia di rivalsa, riadattamento e ribaltamento, sana follia.
Il presente di Lonnie Holley ci porta a “Oh Me Oh My”, ci porta quindi al 2023, e l’ordine delle cose, in questo eterno romanzo, non cambia: Bon Iver, Sharon Van Etten e l’ex frontman dei R.E.M. Michael Stipe accompagnano un’opera di ancora nuovi esasperati linguaggi, vagando in un universo di cinematica realtà tra strade folk che si intrecciano ai classici ed inconfondibili echi blues. E dove stavolta prevale forse il sentimento verso la scoperta della dolcezza: è un jazz-canzone velatamente più morbido, che ci consegna tutta la maturità di un’artista ormai consapevole di divertirsi e giocare anche con il presente.
Nel connubio con Nelson Patton, l’esperienza di un concerto di Holley eleva se possibile ancora di più tale sentimento: la capacità del duo di tessere improvvisazione avant-jazz che ricrea infiniti cicli di palpitanti respiri tra il drammatico e l’innocente, i cui punti di luce più forti sono sempre—e volutamente—sensazionalistiche passeggiate in una prosa di note astratte. Uniti alla storia di un’artista che ha vissuto un “prima” ed un “dopo” la sua stessa idea di musica per poi restituirne un’infinità di combinazioni e di possibilità, la loro unione su un palco non può che favorire un (nuovo) melting pot di domande, insicurezze, scossoni. Tutti elementi indispensabili a trovare altre risposte, rispetto alle solite.
Nato a Birmingham, Alabama, nel 1950, Lonnie Holley vive e lavora ad Atlanta, Georgia. La sua vita artistica è dedicata alla pratica di una creatività improvvisativa che abbraccia pittura, scultura, cinema e musica. Fra i lavori realizzati da Holley nel 2023 si segnalano Souls Grown Deep alla Royal Academy di Londra e Lonnie Holley: If You Really Knew a North Miami (MOCA). Nel 2022 ha esposto a Dallas Contemporary e alla National Gallery of Art di Washington DC. Nel 2021, al The Morgan Library & Museum di New York, mentre nel 2020 al Turner Contemporary nel Regno Unito e al Philadelphia Museum of Art. Nel 2018 ha esposto al Metropolitan Museum of Art di New York, nel 2017 al MASS MoCA di North Adams negli Stati Uniti e al De Young Museum di San Francisco. Le sue opere sono ospitate presso numerose collezioni permanenti, tra cui il Metropolitan Museum of Art di New York, il Whitney Museum of American Art di New York, il Los Angeles County Museum of Art, la National Gallery of Art di Washington DC e il Smithsonian American Art Museum di Washington DC. Il primo film di Holley, I Snuck Offthe Slave Ship è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel 2019. Artangel gli ha commissionato un ciclo di brani e il film The Edge of What nel 2022. Holley ha firmato un contratto con Jagjaguwar ed è rappresentato da Blum & Poe Gallery (Los Angeles) e Edel Assanti (Londra). Il suo ultimo album, Oh Me Oh My (Jagjaguwar, 2023), vede la partecipazione di Justin Vernon dei Bon Iver, Sharon Van Etten, Moor Mother, Rokia Koné e Michael Stipe dei REM, ed è stato prodotto da Jacknife Lee (Modest Mouse, U2 , REM.
Duo strumentale con base a New York composto da Dave Nelson e Marlon Patton, si ispira al minimalismo ambientale, alla composizione poliritmica e alle sonorità orchestrali. Il duo stratifica trombone, batteria ed elettronica per creare una variegata gamma di strutture improvvisate che si evolvono dando vita a una coinvolgente esperienza che spesso si amplifica in drammatici crescendo di fanfare orchestrali. Fondato nel 2013, il duo Nelson Patton ha pubblicato un EP e due album completi, il primo dei quali vede la partecipazione di Lonnie Holley alla voce. Questa collaborazione ha portato a un proficuo rapporto che prosegue tuttora. Il contributo del duo all’ultimo LP di Lonnie, Mith, è stato parte integrante del successo dell’album, che ha ottenuto il plauso della critica e del pubblico. Il cortometraggio realizzato da Holley a corredo del brano I Snuck Off the Slave Ship è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2019. Il duo, inoltre, segue spesso Holley durante le sue tournée, esibendosi in tutti gli Stati Uniti e all’estero. Tra le performance degne di nota ricordiamo il festival “Le Guess Who” di Utrecht, il Summer Happenings Festival del Broad Museum di Los Angeles, il Melbourne Jazz Festival e una collaborazione con gli Animal Collective.
Musicisti della Budapest Festival Orchestra
Musicisti della Budapest Festival Orchestra
Orchestra da Camera di Perugia