LECTURE ON NOTHING
Omaggio a John Cage, Robert Wilson interpreta la Lecture on Nothing del rivoluzionario compositore, testo centrale della letteratura sperimentale del ventunesimo secolo.
Con il suo approccio formale al testo e alla materia, liberando l’immaginazione, Robert Wilson è il perfetto interprete di Cage e dà vita ad un’inspirata interpretazione visiva e acustica del filosofico e poetico testo di Cage, composto con lo stesso criterio della sua musica, eleggendo a soggetto la lecture stessa e la sua continuità temporale. Gli accenti e le pause vocali, così come il ritmo e il suono del linguaggio vengono portati in primo piano creando uno spazio dove testo e silenzio hanno ruoli paritetici, un linguaggio/musica del suono del silenzio.
"Il testo di Cage è affascinante, spesso divertente, un testo da citare e allo stesso tempo volutamente irritante e profondamente stimolante per il pensiero. Il compositore era in una fase di transizione, allontanandosi dalla composizione in qualche modo tradizionale per avvicinarsi alla realizzazione di musiche che incorporano elementi casuali e trattano il silenzio con devoto rispetto […]
Wilson crea cose eccezionalmente belle, i suoi oggetti di scena sarebbero da esporre in musei. Eppure il suo teatro è un teatro non narrativo, comprensibile solo sperimentandolo, vivendolo.
‘Tutto quello che so sul metodo’ scrive Cage alla fine dalla sua Lecture on Nothing, ‘è che quando non sto lavorando a volte penso di sapere delle cose, ma quando lavoro è del tutto evidente che non so nulla.’Alcuni potrebbero definirla un’illuminazione. Wilson, in maniera sublime, dimostra il perché".
Mark Swed_ per il Los Angeles Times, 16 Ottobre 2013_
Contaminazioni: Wilson verso Cage
di Achille Bonito Oliva
L’opera di Robert Wilson si pone sotto il segno dell’arte totale: una sintesi e intreccio di diversi linguaggi, compenetrati tra loro in maniera iterata, nello stesso tempo frammentaria. Teatro-immagine, scultura, installazione, disegno, gestualità, mimica, danza, musica, architettura, suono e luce si attraversano incessantemente in uno spazio che prima di essere fisico è mentale. Di questo infatti possiede la simultaneità di molti eventi e l’assemblaggio di molte situazioni. Comunque quello che regge l’intera intelaiatura dell’opera è il Frammento, la frantumazione della dimensione spaziale e temporale, un’afasia capace di portare l’azione fuori da ogni sistema di previsione.
Un’opera di relazione è quella di Wilson che crea contatto e tangenza all’insegna sempre dell’azione probabile ed indeterminata nello stesso tempo. Dove la probabilità è l’effetto di un uso dello stereotipo, del gesto o oggetto riconoscibile nella sua entità, e l’indeterminazione è la conseguenza dell’accostamento inedito, ma per nulla turbato, del gesto od oggetto con altre situazioni che ne mettono in crisi l’identità normale.
L’azione è il frutto di uno smontaggio, una atomizzazione del gesto, una riduzione del linguaggio gestuale e verbale, dunque comportamentale, alle proprie grammatiche elementari, alle strutture minime che ne compongono la complessità. Per realizzare questo processo minimale, Wilson adotta il rallentamento e la ripetizione del gesto. La scomposizione è frutto di questa riduzione capace di produrre una rappresentazione dilatata, una sottolineatura dell’evento ma non in senso enfatico bensì come movimento che parte dall’interno e poi passa all’esterno e darsi nei termini di espressione e d’immagine.
Il rallentamento e la ripetizione producono una temporalità che scorre lungo una linea orizzontale che favorisce una felice frantumazione degli elementi, evita la condensazione in una visione organica e lascia invece oggetti e comportamenti in una situazione di intenzionale scollamento, come in uno spazio sotto vuoto, uno spazio siderale sottratto alla legge di gravità. Il rallentamento produce attenzione, così la ripetizione, non soltanto nell’attore del ritratto ma anche nello spettatore che viene posto in una situazione di conoscenza attiva e non autoritaria.
Nel suo teatro l’azione è frutto di uno smontaggio, di un’atomizzazione del gesto, di una riduzione del linguaggio gestuale e verbale, dunque comportamentale, alle proprie grammatiche elementari e alle strutture minime che ne compongono la complessità.
Per realizzare questo processo minimale, Wilson adotta il rallentamento e la ripetizione del gesto. La scomposizione è frutto di questo minimalismo capace di produrre una rappresentazione dilatata, una sottolineatura dell’evento, ma non in senso enfatico, bensì come movimento che parte dall’interno e poi passa all’esterno a darsi nei termini di espressione e immagine, lasciando invece oggetti e comportamenti in una situazione di intenzionale scollamento, come in uno spazio sotto vuoto pneumatico, come in uno spazio siderale sottratto alla legge di gravità.
Il rallentamento produce attenzione, così la ripetizione, non soltanto nell’attore ma anche nello spettatore, che viene posto in una situazione di conoscenza attiva e non autoritaria. L’opera di Wilson è una macchina tattile, visiva e sonora, ma totale, una costruzione che è anche macchina della memoria che aiuta lo spettatore e mettersi sulla stessa lunghezza d’onda, quella della conquista di uno sguardo totale. Per questo l’artista procede per immagini, in quanto capaci di trasmettere fantasmi evidenti e lampanti, operanti sulla possibilità del contagio.
Il contagio rappresenta per lo spettatore la fine del viaggio, il riconoscimento di aver partecipato al varco di una soglia su cui liberare il proprio sguardo come possibilità di sporgersi con tutto il corpo dalla finestra del proprio occhio.
Se i referenti culturali possono essere trovati nella cultura del teatro No giapponese, per quanto riguarda rallentamento e ritualità ripetitiva, nella mentalità della Duncan e di Cunningham per quanto riguarda il rapporto con la gestualità corporale, nella grande lezione di Cage per quanto riguarda il rapporto con il suono, il rumore ed il silenzio; alter ascendenze riguardano non soltanto la cultura, ma l’antropologia culturale, per quello che rimanda al teatro di Charenton, Sade e Artaud, la partecipazione della follia all’elaborazione della scena e la frantumazione gestuale dei danzatori balinesi che privilegiano anche elementi periferici del corpo.
In tal modo lo spettacolo sfugge ad ogni categoria culturale, gioca invece sullo slittamento dei generi e con una sovrapposizione di piani temporali e spaziali in cui non viene privilegiato alcuno stadio espressivo in particolare, semmai prevale lo stato di dormiveglia, la posizione orizzontale entro cui scorrono fuori da ogni ritmo immagini di veglia, legate dunque alla produzione del sogno e della fantasia.
L’atteggiamento creativo di Cage promana da una posizione che intende opporsi a ogni sistema codificato, a ogni categoria sistematica della creazione artistica. Intanto per lui non esiste intervallo tra arte e vita, tra suono e rumore, tra progetto e casualità, tra strumento deputato e oggetto quotidiano.
Egli ha sviluppato una poetica di artista totale nella quale il metodo creativo è sincronico a quello di un’esistenza che non riconosce autorità alcuna, culturale e politica, mediatica e sociale. Influenzato da Thoreau e in fondo da McLuhan, egli ha saputo attraversare la società di massa con uno spirito mai collettivizzato dall’omologazione mediatica. Con disciplina e leggerezza ha saputo abitare cattedre universitarie, attraversare luoghi accademici e spazi alternativi. La creazione per Cage è una sorta di tsunami bonario e silenzioso. Come la follia, richiede un metodo. Ma il metodo in questo caso non ingessa la creazione in una geometria di forme, ma piuttosto fomenta nuovi spazi libertari di produzione e fruizione dell’arte. Se non è possibile parlare di nichilismo attivo, nel senso nietzscheano della parola, se nemmeno si può catalogare Cage sotto il segno dello zen, possiamo sicuramente affermare che ci troviamo di fronte a un artista che ha anticipato il multimediale attraverso una strategia creativa e comportamentale vissuta sotto il segno della contaminazione e del sorriso.
Il Sorriso del Giocondo costituisce il sottile aspetto teatrale con il quale Cage ha imposto una didattica socratica per l’arte, nella quale la fruizione implica il movimento della interattività. In tal modo il pubblico si fa protagonista non soltanto mediante l’ascolto, ma anche una partecipazione che scaturisce dalle mille oggettive e delicate provocazioni di Cage. A sua disposizione, oltre a esserci tutta la storia della musica che lui conosce a menadito, esiste tutta una realtà quotidiana al suo servizio, che gli permette di "suonare il mondo".
Se però i futuristi predicavano un’arte dello sconfinamento e la ricostruzione futurista dell’universo, dunque ancora una volta un’alternativa al sistema, Cage va oltre. Egli infatti suona il mondo con quello che trova, risponde a Mike Bongiorno da campione sui funghi alla trasmissione televisiva Lascia o Raddoppia, e magari, seduta stante, realizza pure un concerto per bollitori e caffettiere.
Dagli insegnamenti agli artisti new dada americani come Rauschenberg e a coreografi come Merce Cunningham, alle sue personali performance di arte totale, Cage è portatore di un Sorriso del Giocondo, dove prevale la saggezza sistemica di un comportamento che non vuole dare uno "schiaffo al pubblico" di stampo futurista, ma piuttosto introdurre nella coscienza dello spettatore un ambito di consapevolezza e partecipazione protagonista.
Non esiste nella sua opera e nel suo comportamento mai l’ebbrezza dello scandalo e di una strategia precostituita, semmai l’anarchia di un comportamento che non chiede un posto imbandito nel banchetto dell’arte contemporanea. Piuttosto vuole de-strutturare ogni tavolo o tavola rotonda. Il tutto con un sorriso che ricorda l’espressione enigmatica della Gioconda di Leonardo da Vinci, portatrice di un atteggiamento nel quale coincidono apertura e riserbo nello stesso tempo.
John Cage vuole portare il pubblico non tanto a identificarsi con il suo spazio creativo. Vuole invece condurlo sulla soglia di un ascolto, a partire dal quale il pubblico sceglie il proprio comportamento, attivo o passivo che sia, compiacente o aggressivo. Il tempo è un fattore fondamentale nell’opera di Cage, così come l’estetizzazione che egli compie del quotidiano attraverso l’assunzione della banalità della vita. Il tempo infatti scandisce non soltanto il respiro dell’opera, ma anche quello della collettività che la contempla.
In questo caso il tempo è sintetico e analitico insieme. Sintetico, in quanto tiene insieme il gesto creativo in una forma fruibile e analitico, in quanto tale fruizione permette al pubblico di prendere conoscenza e sviluppare coscienza. Un elemento tattico in Cage è la pratica temporale del ralenti, che ‘buca’ naturalmente la pazienza dello spettatore e sviluppa alcune volte risposte incontrollabili. L’opera si fa specchio in tal modo di un comportamento di cui è responsabile direttamente lo spettatore. Cage infatti rifiuta il paternalismo di una creatività che si responsabilizza fino al punto di catechizzare il corpo sociale, o indicargli la strada migliore. Portato sulla soglia, accompagnato socraticamente dal Sorriso del Giocondo, il pubblico diventa protagonista responsabile del proprio comportamento, soggetto regale dello spazio estetizzato dall’opera, che diventa, a sua volta, indice e istigatrice nello stesso tempo. Indice di iniziale creatività per l’artista, istigatrice di terminale libertà per l’umanità.
regia, ideazione scene e luci Robert Wilson
con Robert Wilson
testo John Cage
musiche Arno Kraehahn
video Tomek Jeziorski
co-regia Tilman Hecker / Ann-Christin Rommen
uomo con il binocolo Tilman Hecker
commissionato e prodotto da Ruhrtriennale
produzione esecutiva Change Performing Arts
Nato a Waco in Texas, Robert Wilson è tra i più importanti artisti visivi e teatrali al mondo. Il suo lavoro si serve di diverse tecniche artistiche integrando magistralmente movimento, danza, pittura, luce, design, scultura, musica e drammaturgia. Dopo gli studi all’Università del Texas e al Pratt Institute di Brooklyn, alla metà degli anni ’60, Wilson fonda a New York il collettivo artistico "The Byrd Hoffman School of Byrds" con cui elabora i suoi primi originali spettacoli, Deafman Glance - Lo sguardo del sordo (1970) e _A Letter for Queen Victoria _(1974 -1975). Nel 1976 firma con Philip Glass Einstein on the Beach, performance che cambia la concezione convenzion ale dell’opera come forma artistica. Negli anni ha stretto collaborazioni con autori e musicisti del calibro di Heiner Müller, Tom Waits, Susan Sontag, Laurie Anderson, William Burroughs, Lou Reed e Jessye Norman. Disegni, dipinti e sculture di Wilson sono stati esposti in centinaia di mostre collettive e personali, e fanno parte di collezioni private e musei in tutto il mondo. Ha ricevuto numerosi premi e onorificenze, tra cui la nomination per il Premio Pulitzer, due premi Ubu, il Leone d’Oro per la scultura alla Biennale di Venezia e il premio Laurence Olivier. È stato nominato all’Accademia Americana di Arti e Lettere e Commandeur des arts et des lettres in Francia. Wilson è il fondatore e il direttore artistico del Watermill Center, un laboratorio creativo dedicato alle arti, con sede a Watermill, Long Island.