Atto unico
Teresa Emanuele, artista romana con all’attivo numerose personali e collettive in Italia e all’estero, lavora prevalentemente con la fotografia in bianco e nero, sperimentando il potenziale tridimensionale e cinetico della proiezione di ombre di stampe su superfici trasparenti.
Debutta a teatro ad Atene nel 2013 presso l’Onassis Cultural Center, quando il suo lavoro Ecfrasi Triste fa da scenografia a _Cercles / Fictions _di Joël Pommerat, diretto da Iannis Leontaris della Kanigunda Theatre Company.
Ispirata dall’emozione di vedere la propria visione far da sfondo ad una piéce teatrale, l’anno successivo realizza la scenografia per il secondo atto de _L’importanza di chiamarsi Ernesto _diretto da Geppy Gleijeses, che debutta al Teatro Quirino di Roma per poi andare in tournée in tutta Italia.
La mostra _IN SOMNIA – Atto Unico _è una raccolta di opere fotografiche concepite come scenografie teatrali. Da sempre appassionata di teatro, opera e balletto, Teresa Emanuele realizza plastici in bianco e nero per l’incanto fiabesco de Il Lago dei Cigni, per la tormenata passione di Rusalka, per la patetica tristezza di Pagliacci. Ancora, inserisce la malinconia dell’aggraziata _Giselle _in un bosco fatato, e reinterpreta in chiave siciliana le struggenti note di Norma. Il suo Don Chisciotte lotta invece contro un contemporaneo campo di pale eoliche che vibrano al vento.
Grazie ai bozzetti degli studenti dell’Accademia di Costume e Moda di Roma, i personaggi prendono vita su questi palcoscenici immaginari dove luci, ombre e riflessi si fondono alla recitazione, alla musica, al canto ed alla danza in una suggestiva reinterpretazione.
CAMERA CON VISTA
La fotografia di Teresa Emanuele
La storia dell’arte ci ha abituato a considerare la sua produzione come una pratica soggettiva dell’occhio che piega a propria immagine e somiglianza il reale mediante gli attrezzi del linguaggio. L’immagine è sempre la conseguenza di una piega, di una torsione dell’occhio intorno al proprio campo visivo, di un movimento irrimediabilmente soggettivo e affettivo.
La fotografia invece ha introdotto un procedimento anaffettivo, una mentalità che sembra meglio fare il calcolo delle cose e strappare alla realtà la pelle. Un luogo comune assegna alla fotografia il luogo di una crudele oggettività, il senso di una pratica chirurgica che seziona, taglia e preleva il dettaglio dalla rete di relazioni con il mondo.
La distribuzione dei ruoli assegna quindi all’artista il posto dello sguardo eccentrico e al fotografo quello dello sguardo statico, all’arte il privilegio di assecondare la malattia della soggettività e alla fotografia il compito di sviluppare l’impossibile atteggiamento dell’impassibilità e della neutralità.
La fotografia italiana pratica da molti anni una tangenza con il mondo dell’arte e degli artisti, capovolge questo luogo comune e introduce nell’ambito dell’immagine la torsione tipica dell’anamorfosi, che appartiene alla storia della pittura, adoperando rigorosamente gli strumenti del linguaggio fotografico. Si mette nella posizione del duello: il fotografo, di fronte al dato, non lascia scattare il dito sulla macchina precipitosamente, bensì promuove una serie di relazioni e rispecchiamenti, per cui arriva all’immagine mediante un rallentamento mentale e l’assunzione di una posizione di lateralità rispetto al proprio mezzo.
La fotografia non è casuale e istantanea, non è il risultato di un raddoppiamento elementare, bensì di una messa in posa che complica e rende ambigua la realtà da cui parte. Una torsione modifica l’immagine, nel tentativo di introdurre nell’ambito della visione l’eccentrico. Se tutto questo produce il risultato dell’oscuramento, dell’interdizione della visione frontale dell’opera, il processo esecutivo richiede il rigore della costruzione.
La fotografia in questo caso spesso utilizza la visione dall’alto proprio nel senso affermato da Goethe dell’ironia che si libera nel distacco. Così noi abbiamo immagini quasi cinematografiche di interni che contraddicono la loro intimità attraverso la capacità descrittiva di una vita quotidiana fermata dalla pittura.
Il distacco nasce dall’ingorgo di un linguaggio che costruisce un "assedio" alla realtà ma non si illude di potersi identificare con la vita. In questo caso la visione si sposa con quella letteraria e nello stesso tempo estremamente figurativa che descrive meticolosamente e metafisicamente una realtà quale occasione di pura catalogazione.
L’uomo acquista la velocità di un immaginario che può agire a occhi aperti o chiusi.
La fotografia italiana costruisce le sue camere dello sguardo, "macchine da fermo", di uno sguardo dall’alto onnipotente e infantile capace di dominare grandi territori dove la vita pulsa nei suoi particolari e dettagli. Tali caratteri diventano la struttura visiva di un sistema astratto eppure concreto del vedere, analisi descrittiva e sintetica per qualità di uno spazio concentrato dentro i confini di una visione labirintica e nello stesso tempo familiare.
Il fotografo adopera la stessa "civile ipocrisia", utilizza materiali e convenzioni che rappresentano e nello stesso tempo negano la rappresentazione tra astrazione e figurazione. Oscilla liberamente con piacere e dolore costruendo immagini presenti e allusive vicine e anche distanti.
La vicinanza è dettata dalla scelta del materiale e dalla convenzione visiva che afferma e conferma la precisione dello sguardo. La distanza è rappresentata dalla filosofia dello sguardo stesso che conosce la sua possibilità e contiene anche la memoria di un contatto ormai impossibile da realizzare e ricostruire.
Achille Bonito Oliva
fotoscenografie di Teresa Emanuele
a cura di Achille Bonito Oliva