Signora Madre, Padre mio caro
Post Mortem
Albert Caraco nasce a Costantinopoli in una ricca famiglia ebraica. La sua vita è all’insegna del nomadismo, delle sterminate letture e della solitudine.
I numerosi libri da lui pubblicati non ebbero, finché l’autore visse, alcuna eco. Caraco si uccide nel 1971, il giorno dopo la morte del padre.
Oggi egli viene scoperto come uno dei pensatori più singolari ed estremi dei nostri anni.
Post mortem, da cui è tratta la prima parte dello spettacolo, fu scritto da Caraco subito dopo la morte della madre, a cui lo legava un tropicale rigoglio di amore, disamore, odio, dipendenza, passione. Così, in “linguaggio amoroso”, e quasi scandendo un’omelia funebre, Caraco ha raccontato un rapporto terribile per intensità e ambivalenza. Sua madre, donna frivola, devota a ciprie e belletti, ornamento di feste in consolati sudamericani, era al tempo stesso “madre divoratrice” e “Mater Gloriosa”. Caraco la celebra come un sacerdote, conscio di essere stato sessualmente mutilato dalla dea. Ma quella mutilazione aveva segnato anche la sua iniziazione. E il figlio aveva rincarato sui precetti della madre: lei voleva solo fargli rifiutare il sesso (quindi le altre donne), lui si spinse fino a rifiutare la vita e passò i suoi anni a scandagliare, in perfetta solitudine, e nella più pura prosa classica, il Nero dell’esistenza. In lui il nulla aveva preso il posto di Dio.
“Attendo la morte con impazienza ed arrivo ad augurami il decesso di mio padre, poiché non oso uccidermi prima che se ne vada. Il suo corpo non sarà ancora freddo quando io non sarò più al mondo” scriveva Albert Caraco in Ma confession. E nel settembre 1971 questo si avverò.
Lettera al padre
La narratività, o la drammaticità quasi teatrale, della Lettera al padre- seconda parte dello spettacolo- non è data solo da lacerti di dialogo, e nemmeno da allusioni più o meno velate a opere gloriose della narrativa kafkiana. Questo sapore, che a noi pare fortissimo, è diffuso ovunque e costituisce la vera caratteristica del presente scritto: che è, non meno che nelle novelle La condanna o La metamorfosi, uno scontro “sceneggiato” tra padre e figlio, oltre che, naturalmente, confessione autobiografica e esercizio di autoanalisi. Forse fin dall’inizio Kafka sentiva che quella lettera non era indirizzata al padre oggettivo ed esterno ma a quello soggettivo e interno: un ennesimo colloquio con uno spettro interiore. Come si dice dei pazzi, insomma, Kafka “parlava da solo”: e questa lettera non sarebbe che un angoscioso soliloquio affidato alla carta scritta.
Noi oggi leggendo queste pagine siamo fortemente indotti a parteggiare: ovviamente per il figlio, geniale, la vittima, contro il padre ottuso, il carnefice. E’una tentazione quasi fatale, ma che va rifiutata. Del resto lo stesso Kafka non l’avrebbe gradita. Pur lanciando al padre accuse di enorme gravità, si premura tuttavia di mettere in luce i lati positivi del genitore, ma più ancora di evidenziare i lati negativi di se stesso. I buoni e i cattivi, in questo testo, non sono divisi da un taglio netto, così come non lo sono i felici e gli infelici. Se mai si potrebbe ritenere che tutti, padre figli moglie, sono ugualmente infelici, che tutti nutrono ottime intenzioni pessimamente realizzate. Circa l’origine di tutto ciò, non resta che ipotizzare “qualcosa che non funziona o che funziona male nella macchina uomo”. E questa Lettera al padre è un documento terribile e per nulla letterario di questa spaventosa incongruenza, di questa ostinata follia “senza metodo” che fin dalla notte dei tempi avvelena ogni nostra più promettente giornata.
Italo Alighiero Chiusano
Prima assoluta
da Post Mortem di Albert Caraco
e Lettera al padre di Franz Kafka
Versione scenica Furio Bordon
Con
Sandro Lombardi
e Massimo Verdastro
Produzione Mittelfest 2009