Mehdi Kerkouche
Dai giovani agli anziani
è una tribù che balla
Intervista di Leonetta Bentivoglio – Il venerdì di Repubblica
Portrait significa ritratto. Che cosa ritrae?
«Una famiglia. Che cosa c’è di più complicato e necessario di quel luogo dove gli individui devono coesistere anche se non si sono scelti? Formano la tribù di Portrait interpreti che vanno dai 19 ai 68 anni, e la loro vita può essere scomoda, felice, arrabbiata, tossica, affettuosa o solidale, in un succedersi di tableaux lungo i quali i rapporti via via si sfaldano o s’intensificano, nel segno di un persistente evolversi delle emozioni. Questa massa può frantumarsi in duetti e assoli, o in altri passaggi si ricongiunge in quadri collettivi. Una donna anziana domina l’ambiente. È la nonna? È la madre? Decidete voi spettatori».
I ballerini hanno un linguaggio di danza comune?
«No. Giungono da mondi differenti: hip hop, street jazz, cabaret, break dance, circo acrobatico, tip tap, danza libera… Mi piace questo mix turbinoso di stili, immerso nella colonna sonora elettro-pop di Lucie Antunes, che è un incantesimo vibrante. Lucie nasce musicalmente come percussionista, e tale pulsazione si sente nei suoi brani».
Come ha incontrato la danza?
«Ci sto dentro da sempre. A sei anni saltavo in continuazione in giro per casa, e mia madre per placarmi m’iscrisse a un corso di modern jazz. Studiai per un po’ e adoravo farlo, ma i miei non avevano i mezzi per farmi proseguire. Abitavamo in una banlieue di Parigi. Ho due fratelli, un padre idraulico, una madre domestica. Decisi di mettermi a cercare d’imparare la danza da solo guardando la televisione: prendevo a modello i video di Michael Jackson, Prince, Britney Spears… Poi da adolescente, frequentai i corsi hip hop gratuiti che si tenevano nel quartiere, e l’insegnante mi prese sotto la sua protezione. A 16 anni iniziavo a dare corsi e poco dopo ballavo in commedie musicali come Le Roi Soleil e Cléopatre. A 18 sono entrato nell’Accademia Nazionale di Danza di Parigi e ho avuto una formazione professionale di balletto classico e modern jazz. Ho cominciato presto a creare coreografie per programmi televisivi, da Miss France fino ai mega-concerti in Eurovisione. Tra le tante cose ho curato la messa in scena del tour della cantante Angèle, che ha collaborato con Mahmood».
La sua forte identità pop non ha impedito alla direttrice del ballo dell’Opéra di Parigi Aurélie Dupont di offrirle, in piena pandemia, una creazione per l’aristocratica compagnia del teatro
«Ho montato ET SI, un pezzo ombroso e scuro che finisce per trovare la luce e la speranza nell’avvenire. È un inno alla sopravvivenza che si realizza grazie al sostegno fra i membri del branco».
La sua famiglia è di origine algerina. Questa radice si riflette nella sua indole di artista?
«Certo! Sono nato a Parigi e cresciuto nel dialogo tra cultura francese e araba, e quand’ero bambino nel mio quartiere, molto misto, c’era un clima di tolleranza che adesso, con tutte le etichette imposte dalla società, si sta perdendo. Neri e bianchi, ebrei e arabi, tutti si mescolavano senza barriere. Ho vissuto la mia doppia cultura come una ricchezza, e so che una sostanza algerina è un dato onnipresente nella mia personalità. L’Algeria è una dimensione solare e mediterranea di grande generosità che vive in me con naturalezza. Ho fatto una coreografia intitolata Dabkeh che mi ha riconnesso a questo nucleo. È una danza tradizionale che si esegue in Palestina nelle feste di matrimonio, e io l’ho esplorata in una prospettiva contemporanea».
I social media l’hanno lanciata in un successo virale
«Durante il lockdown davo corsi in rete, invitando la gente a fare donazioni per gli ospedali: ho raccolto decine di migliaia di euro. Ho montato video e organizzato festival per indurre la gente a ballare in casa propria. Ora abbiamo terminato un mese di rappresentazioni al Louvre, dove i miei artisti si esibivano ogni mattina ballando nelle sale del museo per gruppi di sessanta spettatori al giorno. La danza deve spaziare, contagiare, dilagare, correre dentro la vita quotidiana. Per questo c’è bisogno che si espanda ovunque, non solo nei teatri. È un’espressione di sé che ha a che vedere col piacere e la condivisione. Credo moltissimo nel suo potere aggregante».