Danza
Voce libera, corpi incatenati
Flora Détraz e il corpo femminile in metamorfosi
di Valeria Vannucci
“Nella voce si esprime l’essere nel mondo corporeo di colui/colei che proferisce, e a sua volta la voce si rivolge all’essere nel mondo di chi la percepisce: essa riempie lo spazio tra loro e stabilisce fra di essi una relazione”.
Le parole di Valentina Valentini, studiosa del teatro, lo mettono in chiaro in modo preciso: esiste una profonda relazione fra corporeità, presenza e vocalità. E proprio alla vocalità Valentina Valentini ha dedicato gran parte delle sue ricerche, ad esempio nell’ambito del seminario d’incontri realizzato a Palazzo delle Esposizione nel 2019, Il femminile della vocalità, (in parte consultabile su «Sciami – Webzine semestrale di Teatro, Video e Suono») –, un legame che, in senso di negazione, è possibile ricollegare anche alle analisi antropologiche che si concentrano sui tabù connessi al corpo femminile.
Voci ammutolite, ieri come oggi, in quanto corpi pregni, densi, presenti, capaci di veicolare e generare e proprio – per questo – temibili. Ne dà conto la cronaca, un conto drammatico e lugubre se pensiamo a tutte quelle voci di donne messe a tacere per mezzo della violenza maschile, che si accanisce sui loro corpi. Ne dà conto anche la storia, quella più antica ma anche quella recente, che ci racconta come nelle società e nei consessi umani al femminile sia riservato, tradizionalmente, un ruolo in disparte, relegato ai margini, con diritti umani ridotti quando non apertamente negati. Ne dà conto, infine, anche la tradizione – ad esempio quella occidentale, che affonda le sue radici nella cultura classica di matrice greca – dove il corpo e la voce femminile riflettono, in diverse ricorrenze, quelle che la studiosa di antropologia culturale Laura Faranda definisce «personificazioni di un’assenza». Regine, dee, ninfe, madri, mogli, figlie mitiche. Quale che sia il ruolo che viene assegnato alle donne, il corpo femminile – e la voce che di quel corpo è a sua volta “corpo” – spicca nei miti ellenici più per il suo annientamento che per la sua affermazione.

Muyte Maker, ©Carlos Fernandes
Eco, la ninfa ridotta a solo «specchio acustico», smaterializzata nel corpo e costretta a ripetere esclusivamente le ultime parti di una frase – se seguiamo la versione ovidiana del mito – ne è un esempio calzante. Ne Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, romanzo dell’autore ellenistico del III secolo Longo Sofista, è invece il dio Pan a depauperare la voce e il corpo di Eco, al fine di annientare la potenza canora della ninfa; anche in questo caso, non a caso, lo strumento utilizzato è la violenza. Anime assenti – è il titolo del libro di Laura Faranda del 2017 – e voci spezzate sono gli elementi che ricollegano l’antico passato del dio caprino agli abusi quotidiani del presente.
La voce femminile è un pericolo per la società maschile, la presa di parola uno scandalo, prestarle ascolto un azzardo. Voci inaudibili sono, ad esempio, anche quelle delle sirene, esseri che – seguendo ancora l’analisi antropologica – si rivelano estremamente pericolose per chiunque sia impreparato ad ascoltare una verità profonda. Un rifiuto parziale riguarda invece il legame che intercorre fra il corpo celato e le parole profetiche della Pizia, la sacerdotessa di Apollo che mostra come “la vocalità sia essere parlato da altro» (la definizione è ancora di Valentina Valentini).
La potenza comunicativa della voce e del corpo femminile vengono estromesse o marginalizzare praticamente in ogni epoca, ovviamente a vari livelli e con le dovute distinzioni. Ciò che non cambia, col mutare della storia e con il processo di acquisizione di maggiori diritti da parte delle donne, è il fatto che la loro voce venga comunque percepita come una complessità impossibile da maneggiare per una società costruita su logiche maschili. Spesso zittita, anche per mezzo di un pudore esasperato, e ridotta costantemente a immagine stereotipata, la voce femminile resta il fantasma irredento del nostro tempo.
Lo sintetizza bene la coreografa francese Flora Détraz intitolando la sua opera del 2018 Muyte Maker, spettacolo che vede in scena quattro danzatrici – Mathilde Bonicel, Inês Campos, Flora Détraz, Agnès Potié – nell’interpretazione di diversi elementi artistici del periodo medievale e rinascimentale. Una partitura coreografico-musicale che disobbedisce a quegli stessi richiami che ne hanno delineato la struttura, giacché il titolo dello spettacolo – che va in scena al festival di Spoleto il 9 e il 10 luglio – contiene volutamente un’ambiguità.
«Muyte Maker deriva dall’antica lingua fiamminga – spiega Flora Détraz. Significa “ammutinamento”, ma anche “gabbia per uccelli”. Questo doppio senso, che evoca sia la libertà che l’intrappolamento, credo si adatti molto bene al pezzo. E poi mi piace molto anche la sonorità di queste due parole combinate. Nessuno sa davvero come pronunciarle bene e questo conferisce loro un potenziale per significati immaginari. Alla fine, mi interessava il fatto che questo concetto abbia un forte significato sotterraneo e che provenga da una lingua ancestrale, quasi criptata».

Muyte Maker ©Bruno Simao
La dicotomia intrinseca dell’espressione fiamminga permette di cogliere fin dal principio una volontà in particolare: celebrare la complessità delle quattro figure femminili che, in una dialettica costante fra movimento e voce, attraversano una serie immagini medievali, antichi poemi, brevi canzonette e dipinti grotteschi, ridisegnati nel solco di una ribellione possibile. Una traccia che permette a quei corpi e a quelle voci di uscire dalla gabbia, di non doversi più negare nella limitazione dei modelli e dei confini imposti.
Voce e movimento, nella composizione di questo pezzo, sono dovuti necessariamente entrare in un processo dialetto, che Flora Détraz descrive in questo modo:
“Siamo partite dagli spartiti delle canzoni del tardo Medioevo, su cui abbiamo cominciato a lavorare. Ci sono polifonie con bellissime armonie che si diffondono nel tempo e nello spazio. I movimenti delle danzatrici, d’altra parte, sono invece molto piccoli, dettagliati e nitidi. Non è un concerto e noi non siamo cantanti ma esseri con delle voci. A volte cantiamo secondo il nostro movimento, altre volte le nostre voci sono in completa contraddizione con ciò che stiamo mostrando visivamente. Questi strati sovrapposti mi permettono di creare corpi femminili più ricchi, più complessi, più ambigui, più folli”.
Le rappresentazioni stereotipate delle donne hanno mille facce: le donne belle, le donne silenziose, le donne incatenate. I limiti delle loro azioni diventano la cifra con cui queste rappresentazioni vengono evocate, affiorano dallo spazio. Ma c’è un’innesco che può far saltare gli schemi, ribaltare la norma.